squaliFonte: il manifesto, 2011.08.09

Tutti chiedono sacrifici ai cittadini, mentre a nessuno viene in mente di chiedere la vendita di una parte dell’oro della patria, ovvero il contrario dell’autarchia 


Può esistere un paese che è il terzo nel mondo quanto a debito pubblico e contemporaneamente detiene la quarta riserva aurea su scala mondiale? Sì, è l’Italia. Il nostro paese infatti ha un rapporto debito pubblico/Pil che ha raggiunto il 120 per cento, mentre nei caveau di Palazzo Koch e di altri blindati depositi di banche centrali in giro per il mondo giacciono – almeno così era a fine 2010 – 2.142 tonnellate in “verghe” d’oro per un controvalore di 83,197 miliardi di euro. La nostra Banca centrale ha infatti continuato ad accumulare quella che Keynes chiamò spregiativamente la “barbara reliquia”, con sempre maggiore intensità in particolare da quando è nato l’euro. Il che costituisce un’altra evidente e clamorosa contraddizione. Infatti se le riserve auree possono servire da garanzia a fronte della emissione di carta moneta da parte della banca centrale, tale funzione viene del tutto meno quando il potere di “torchio” è nelle sole mani della banca centrale europea. Eppure se nel 1999, anno di esordio dell’euro, le giacenze di oro italiane valevano 22 miliardi, nel corso di questi dodici anni, le stesse si sono quasi quadruplicate, almeno in termine di controvalore, con sempre maggiore velocità in particolare nell’ultimo quinquennio. La cosa si spiega non solo con la crescente voracità aurifera del nostro principale istituto bancario, ma soprattutto con la crescita del valore dell’oro, sempre più bene rifugio in questo periodo di crisi economica mondiale. È dell’altro giorno la notizia che anche un paese come la Corea del Sud è tornato ad acquistare oro in grande quantità, segnale inequivocabile di una profonda sfiducia sulle sorti dell’economia e delle principali monete di riferimento internazionale quali il dollaro e l’euro. In questo modo il prezzo dell’oro continua a lievitare. Siamo giunti al record storico di 1.661 dollari l’oncia con una crescita vertiginosa dall’inizio della crisi, visto che nell’estate del 2008 – poco prima del fallimento della Lehman Brothers avvenuto alla metà del settembre di quell’anno – la medesima misura d’oro veniva scambiata a non più di 340 dollari. 
Nel contempo il governo ha varato una manovra economica che, stando solo all’ultimo decreto finanziario, ammonta a circa 48 miliardi. In realtà la cifra è complessivamente molto più alta – circa 80 miliardi di euro – se si considerano l’insieme dei provvedimenti varati dal governo nel tentativo del tutto fallito di rassicurare i mercati finanziari internazionali sulla solidità della nostra economia. La maggiore parte di questa ultima manovra poggia su tagli di detrazioni che aumenteranno il prelievo fiscale sulle famiglie a reddito medio-basso. Una vera e catastrofica controriforma fiscale di tipo regressivo. Non pago di ciò il governo Berlusconi pensa di svendere le partecipazioni statali nelle principali società nelle quali è ancora presente capitale pubblico, cioè Eni, Enel, Terna, Poste e Finmeccanica, che, guarda caso, sono poi quelle che vanno meglio e che assicurano allo stato profitti che sarebbero comunque superiori ai risparmi derivanti dalle dismissioni di capitale pubblico. 
A questo punto e per tutte queste ragioni ritorna inevitabilmente una domanda: non sarebbe meglio, per evitare uno sfacelo sociale, vendere almeno una parte di così tanta riserva aurea? Perché svendere i gioielli di famiglia metaforici, ovvero le partecipazioni pubbliche in aziende produttive, e non mettere mano ai gioielli autentici, cioè i lingotti d’oro gelosamente custoditi nei caveau di mezzo mondo? 
La questione non è affatto nuova, lo so. Vi fece cenno nel 2004 lo stesso Tremonti. Venne poi rilanciata da Romano Prodi, quand’era presidente del consiglio, nell’estate del 2007, subito dopo lo scoppio della crisi dei subprime negli Usa. Allora venne ricordato che la quantità d’oro vendibile era comunque limitata ad una certa – ma tutt’altro che trascurabile – quantità annuale che non poteva venire superata. Vi era chi – fra cui lo scrivente – sosteneva che in ogni caso pensare di buttare tutto nel calderone di un debito gigantesco di oltre 1.800 miliardi era come pensare di svuotare il mare col cucchiaino. Quindi, e ciò è tanto più valido adesso, la vendita di una consistente quantità delle nostre riserve auree poteva e doveva essere fatta, finalizzandola però al finanziamento di una politica economica anticiclica, ovvero a favorire investimenti in settori produttivi innovativi. 
Ma soprattutto l’ostacolo maggiore era ed è rappresentato dalla risposta da dare ad una domanda che lo stesso Tremonti si rivolgeva di fronte alla Commissione finanze del Senato qualche tempo fa: «Ma siamo sicuri che l’oro sia della Banca d’Italia, che appartenga effettivamente al popolo italiano, ai contribuenti?». Alla domanda retorica non si può che rispondere che la proprietà dell’oro è – attualmente – nelle mani dei partecipanti al capitale del nostro principale istituto bancario. Si arriva quindi a quello che è il nocciolo della questione: la natura privatistica della Banca d’Italia. Questa è infatti ente di diritto pubblico dal 1936, ma i partecipanti al capitale della Banca sono in stragrande maggioranza società per azioni private, ovvero istituti di credito privatizzati lungo i terribili anni Novanta, con la sola eccezione di Inps e Inail. 
Per quanto possa sembrare strano il capitale della Banca d’Italia è definito nella misura di soli 156.000 euro (attualizzazione dei trecento milioni di lire fissati nel ’36!) ed è suddiviso in 300.000 quote di 0,52 euro cadauna. Ai primi posti nella graduatoria del possesso di queste quote troviamo l’Intesa San Paolo, l’Unicredit e le Assicurazioni Generali, segue poi un lungo elenco di istituti minori, fra cui molte casse di risparmio locali. È evidente che la struttura di comando non corrisponde alla composizione esatta del capitale, altrimenti l’istituto non potrebbe funzionare, ovvero, come ebbe a dire un autorevole banchiere come Bazoli: «La struttura di governo della Banca d’Italia è tale da garantire una rigida separazione tra proprietà formale e poteri effettivi». Anche se questo veniva detto soprattutto per respingere l’accusa fondatissima di un evidente conflitto di interessi rappresentato da una Banca, che ha anche compiti di vigilanza sul sistema bancario, e che lì dovrebbe esercitare nei confronti dei propri proprietari. Fino a che non si scioglierà questo nodo tutto resterà come prima. 
Ad un certo punto della sua missione pareva che Mario Draghi volesse porvi mano, addirittura parlando di una pubblicizzazione del principale istituto di credito. Aveva suscitato qualche speranza ma poi tutto è finito in una dichiarazione mendace. 
Tutti, governo, opposizione, sindacati, Presidente della Repubblica, chiedono in vario tono sacrifici ai cittadini. Tutti si consolano con la solidità del nostro sistema bancario. A nessuno viene in mente di chiedere allo stesso e alla Banca d’Italia un sacrificio elementare e del tutto sopportabile, quale potrebbe essere quello della vendita di una parte de
ll’oro della patria, ovvero il contrario dell’autarchia. Non è necessario aspettare i tempi della nazionalizzazione della Banca d’Italia, basterebbe mettere in discussione un mantra del neoliberismo, quello della sua assoluta autonomia. Nel 1973, l’allora Governatore Guido Carli diceva, nelle ultime battute delle sue annuali Considerazioni finali, che sarebbe stato un atto sedizioso solamente pensare di rifiutarsi da parte dell’istituto di emissione di andare incontro alle esigenze di riduzione del debito dello Stato. Altri tempi.