CPF 19/04/2016

Documento politico sui rapporti con l’amministrazione Accorinti.

Rifondazione comunista prende atto che l’elezione di Renato Accorinti a sindaco di Messina, nel giugno 2013, non ha mantenuto le aspettative che si erano create a sinistra sul futuro della città.

Proviamo a ripercorrere alcuni passaggi chiave di questa esperienza, fornendo elementi di analisi che vadano al di là delle singole vicende, da cui comunque non si può prescindere, e ne colgano il senso complessivo, per riannodare i fili di un dibattito a sinistra che guardi oltre la sindacatura Accorinti.

Le elezioni

Renato Accorinti nel 2013, con la sua candidatura, ha offerto la possibilità, a rifondazione comunista, alla sinistra, ai cittadini messinesi, di riscoprire il gusto di una campagna elettorale viva, in cui recuperare la fiducia in un domani diverso, la speranza di un cambiamento possibile.

Il contesto in cui è avvenuta l’elezione di Renato è stato assolutamente diverso da quello di qualsiasi altra città italiana in cui si siano affermati dei candidati al di fuori degli schieramenti tradizionali.

Orlando e De Magistris hanno vinto grazie al loro carisma personale, ma erano comunque dei politici alla guida di uno schieramento composto da I.d.v. e Rifondazione, per il primo anche dai Verdi. Pisapia a Milano e Zedda a Cagliari erano sindaci espressioni di coalizioni di centrosinistra (compreso quindi il Pd), sia pure in quota Sel e con l’appoggio di Rifondazione. Persino la Collica, veicolata nell’immaginario quale sindaco della società civile, era in realtà supportata da Sel, Rifondazione, socialisti e da un movimento civico. In tutti questi casi, dunque, i sindaci eletti erano rappresentanti di partiti, insieme ai quali è stata costruita la giunta. Inoltre, bisogna precisare che Accorinti e Collica sono tra questi i soli sindaci eletti che non sono riusciti ad avere una maggioranza in consiglio comunale.

Renato è stato appoggiato in primo luogo e da subito da Rifondazione Comunista, seguita da Verdi, Pdci, Idv e una minoranza di Sel (il partito ufficiale ha appoggiato Calabrò). Ma con nessuno di questi partiti ha stretto accordi. Di nessuno di essi ha mai ufficialmente e pubblicamente riconosciuto il ruolo e l’apporto che hanno dato.

A sostenere Renato, tuttavia, non ci sono stati solo questi partiti, ma anche movimenti, pezzi di sindacalismo, associazioni, singoli cittadini, in larga misura accomunati da anni di battaglie ambientaliste, pacifiste, per il lavoro, di impegno sociale e civile.

La vittoria di Accorinti è stata resa possibile dal particolare momento storico, in cui è crollata la fiducia della gente nei partiti, nella politica, nelle forme di rappresentanza in genere, e si sono erosi i margini di tenuta del consenso clientelare.

Questo gli ha consentito di raccogliere un consenso tale da arrivare al ballottaggio, e qui ha catalizzato sia il voto di quanti non volevano che “vincesse Genovese”, sia di quanti per la prima volta hanno percepito la sua candidatura come il cambiamento possibile e non come mera protesta.

Accorinti ha potuto raccogliere tutto questo consenso e poi vincere perché era “Renato”, uno cioè che non solo aveva fatto le battaglie (che a Messina hanno fatto in diversi), ma perché su queste battaglie ha investito acquisendo una indubbia popolarità personale, mantenendo un carattere assolutamente individualistico, fuori da ogni schieramento. Inoltre, possiede entusiasmo, energia, fiducia in se stesso e una grande capacità comunicativa. Sa parlare al cuore delle persone.

Per il momento storico, per la sua cultura, per come si è presentato, per come è stata gestita la cosa da chi gli stava intorno, su di lui si è giocata una grande scommessa trasversale.

E con questo non mi riferisco solo alla “gente” che lo ha votato, mi riferisco anche ai gruppi organizzati che hanno lavorato per lui. Si sono mobilitati in tempi diversi: chi dall’inizio, chi al primo turno, chi al ballottaggio, chi solo dopo che ha vinto. Un candidato targato politicamente e ideologicamente strutturato, non avrebbe mai avuto le mani così libere e goduto di tanti appoggi, neanche volendo fare le stesse cose.

Quindi, da questo punto di vista, è assolutamente vero che “Renato ha vinto”, che a lui va in primo luogo il merito di avere catalizzato un insieme di energie altrimenti divise e disperse, di avere raggiunto strati assai diversi di elettorato che altri non avrebbero saputo o potuto raggiungere, ma questo non significa affatto che “ha vinto da solo”, come molti suoi fedelissimi sostengono, ma esattamente il contrario. Ha vinto grazie all’apporto di una serie di forze di segno diverso, attivatesi chi prima e chi dopo, chi in maniera pubblica e trasparente e chi no.

Ma tra queste forze solo i partiti e i movimenti della sinistra, insieme all’associazionismo cattolico progressista, potevano farsi carico della candidatura di Renato. Senza la sinistra, politica e sociale, questa esperienza non si sarebbe neppure potuta pensare.

La sinistra considerata nel suo complesso (rifondazione, verdi, comunisti italiani, sel e idv) nel comune di Messina, alle regionali del 2012 ha preso 7.610 voti pari all’8,74%, alle politiche del 2013 7.105 voti pari al 6,06% e alle europee del 2014 (l’unica dopo le amministrative) 4.765 voti pari al 6,78%. Tale operazione di sommatoria non è tecnicamente precisa, perché queste forze non si sono presentate sempre tutte insieme, o con i propri simboli, nelle elezioni sopra citate, tuttavia dà un’idea del peso politico di questi partiti in città in questi anni di grave difficoltà per questo schieramento.

Se pensiamo che l’intera lista a sostegno di Renato Accorinti, con Renato capolista, ha ottenuto 10.390 voti, pari all’8,25%, comprendiamo che l’apporto della sinistra al risultato non può essere stato marginale, sicuramente decisivo per arrivare al ballottaggio. Non solo e non tanto perché a Calabrò per vincere sono mancati 46 voti, ma anche e soprattutto perché circa 4.600 voti hanno diviso Accorinti da Garofalo, candidato del centrodestra.

Queste forze, in particolare Rifondazione, hanno portato non solo voti, ma militanza, iniziative, banchetti, incontri, volantinaggi, comizi, feste di piazza, ecc. senza i quali Renato non sarebbe mai stato eletto, non sarebbe nemmeno arrivato al ballottaggio; senza di esse, d’altronde, non si sarebbero nemmeno raccolte le firme necessarie alla candidatura, né si sarebbe composta la lista (senza cui il sindaco non può presentarsi).

Questi soggetti si sono spesi generosamente perché Renato era “uno di loro” e capivano che poteva conseguire un grande risultato, anche senza vincere, e quindi rappresentare un tramite per arrivare a incidere sui centri decisionali della politica cittadina, ma ancor più essere un elemento di rottura per gli equilibri di potere consolidati, una speranza per i cittadini di questa città e per la città stessa.

Si è formato un movimento, molto oltre quei partiti, in cui si è realizzata una chimica favorevole, si è innescato un circuito virtuoso, che aveva la sua forza nello slogan “dal basso”, intendendo con questo un percorso condiviso attraverso lo strumento delle assemblee, che dall’iniziale momento elettorale si allargasse a tutta la città, rappresentando un nuovo e potente stimolo alla partecipazione. In questo slancio si sono fuse in un impegno comune anime diverse che hanno imparato a conoscersi, frequentarsi, trovare modalità comuni di espressione e d’azione.

Già sul finire della campagna per il primo turno, quando si è capito che si poteva arrivare al ballottaggio, qualcuno ha ritenuto non solo che questi consensi si potevano dare per acquisiti, erano ormai “di Renato”, ma che la visibilità delle forze della sinistra poteva rappresentare una zavorra che impediva di raggiungere tutti quegli elettori che “non sono di sinistra” e che sono la grande maggioranza, specialmente a Messina. Un modo di pensare miope, come dimostravano le vicende nazionali e in particolare Napoli e Palermo.

L’atto che ha sancito il passaggio alla nuova fase è stato il momento in cui, dovendo indicare i componenti per la squadra degli assessori, specialmente tra il primo e secondo turno, Renato ha negato qualsiasi possibilità di confronto, assumendo su di sé il diritto e la responsabilità di scegliere “per empatia”. Come d’altronde farà in seguito.

Democrazia e partecipazione

Con tale comportamento il candidato sindaco ha esplicitato che da quel momento le scelte importanti e strategiche non sarebbero state più condivise con quel mondo che l’aveva portato fino a lì. Un progetto comune diviene la vittoria di Renato, la condivisione politica deve lasciare il passo all’atto di fede, dalla democrazia partecipata all’empatia mistica.

La giustificazione teoretica di questo cambio di passo, insieme a “Renato ha vinto da solo”, è semplice e potente: “dal basso” non deve più indicare quella scalcagnata congerie che da anni si batte per il cambiamento e che ha trascinato Renato a questa vittoria, ma tutta la città. “Noi ascolteremo tutti allo stesso modo”, significa in realtà: “così faremo quello che vorremo senza dare conto a nessuno”.

Convivevano infatti nella giunta e in ampie parti del movimento originario, un’idea di partecipazione liquida e larghissima con l’idea che molte scelte fossero competenza esclusiva dei professionisti, dei tecnici, dei professori, (infatti sono le sole categorie tra cui selezionare gli assessori), ecc. di chi insomma detiene un sapere che è vero oggettivamente. Queste due modalità non entrano in contraddizione, perché entrambe negano, nei fatti, valore ai corpi intermedi, alla partecipazione vera, pretendendo di rappresentare un modello diverso e più avanzato di democrazia.

Tra Renato (e l’amministrazione) e la città non si deve frapporre alcun filtro, alcun soggetto organizzato che possa vantare un ruolo privilegiato. Ma la storia ci dice che le organizzazioni strutturate, con tutti i loro difetti, si sono costituite proprio per porre un freno alla libertà assoluta di chi governa, sono lo strumento di partecipazione dei ceti sociali svantaggiati.

Certamente, nel tempo le modalità di partecipazione variano, ma talvolta, semplicemente, arretrano, sotto l’urto egemonico del pensiero dominante.

Non percepirsi di “parte” significa ignorare che esistono diverse visioni possibili del mondo. Queste “diversità” dipendono dalle scelte di campo, dai referenti sociali, dalla cultura di appartenenza. Se si nega tutto questo, allora si afferma implicitamente che vi è una sola verità, un solo modo giusto, tecnicamente definibile, di fare le cose. Dietro l’apparente ultra democraticità di voler rappresentare tutti facendo le cose nell’interesse “oggettivo” dei cittadini, insomma, si cela una visione al fondo potenzialmente totalitaria, un’idea malata e tecnocratica della democrazia.

Se non vi è una “parte” politica, sociale, culturale, con la quale identificarsi, entro il cui perimetro costruire gli strumenti organizzativi della propria azione, allora l’egemonia sarà di quel tessuto vischioso che domina la città o, nella migliore delle ipotesi, di una ristretta cerchia tecnocratica che farà le scelte “oggettivamente” migliori.

Con ciò non si vuole negare validità alla tecnica, tanto meno all’importanza di avere persone esperte nelle diverse materie: ma la tecnica si deve occupare del modo migliore di eseguire quanto la politica, democraticamente, ha definito, non viceversa; oppure indicare costi e benefici delle alternative possibili, orientando e supportando così l’indirizzo politico, ma non sostituendosi ad esso.

Altrimenti si faranno scelte “tecniche” le quali, non mettendo in discussione il contesto in cui maturano, saranno necessariamente funzionali al mantenimento dello status quo, cioè non avranno alcuna capacità di agire per modificare i rapporti di forza sociali a vantaggio dei soggetti più deboli. L’idea di riscatto sociale viene integralmente surrogata da un mix tra efficienza tecnocratica e carità cristiana e l’una e l’altra si scontrano coi vincoli normativi e finanziari di un comune in pre-dissesto che cerca di risollevarsi nel sud povero d’Italia dentro la cornice delle politiche di austerity imposte dall’Europa e dal governo nazionale.

Le aspettative non corrisposte

Certamente erano tante, e di natura diversa, le aspettative intorno all’elezione di Renato. Rifondazione e la sinistra vedevano innanzitutto un’occasione di riscatto per i ceti sociali martoriati dalla crisi, un elemento di resistenza contro l’austerity, una svolta verso un uso finalmente ecosostenibile del territorio, un baluardo contro le angherie dei potenti che da sempre a Messina hanno fatto il bello e cattivo tempo, un varco che si schiudeva per esperimenti di democrazia partecipata, per la difesa/riappropriazione dei beni comuni, magari anche un laboratorio per la ricostruzione di una sinistra rinnovata, non minoritaria e non subalterna.

Molti altri si sarebbero accontentati di un mondo più giusto e razionale, con regole certe e valide per tutti, la fine dei favoritismi e delle ruberie, servizi finalmente funzionanti.

Altri ancora, forse la maggioranza, semplicemente non avevano di meglio, avendole provate tutte, o si sono tolti un sassolino dalla scarpa, e hanno votato Renato per votare contro qualche altro.

Questa amministrazione, rifiutando di assumere un chiaro profilo politico, ha implicitamente rinunciato alla possibilità stessa di perseguire quegli obiettivi che richiedevano una più alta visione ideale e coerenza progettuale.

L’inesperienza tecnico-amministrativa, l’incapacità politica, le difficoltà economiche, l’arretratezza e talvolta l’ostilità della macchina burocratica, il rapporto complesso col consiglio comunale, hanno reso assai arduo perseguire anche solo gli obiettivi di una buona amministrazione.

Le scelte per “empatia” delle nomine che contano, hanno provocato grossi malumori e forti dubbi sulla reale trasparenza e imparzialità delle scelte medesime.

Tuttavia, questa amministrazione è riuscita a segnare dei punti a suo favore, Il sindaco e diversi assessori hanno assunto posizioni coraggiose e controcorrente in più di un’occasione: no muos, antimafia, pace, freedom flottilla, lotta ai tir, sostegno all’Altra Europa, interlocuzione (sia pure a fasi alterne) con gli occupanti di spazi sociali e case, delibera sulle unioni civili, proposta di stabilizzazione dei lavoratori precari,… Prese di posizione e atti non privi talvolta di ambiguità e non di rado senza esiti concreti, ma indubbiamente segnali di discontinuità col passato.

Qualcuno ha detto che queste sono state solo azioni simboliche, ma nella moderna società della comunicazione i simboli contano, sono fatti, possono sedimentare cultura: molti giovani sono stati influenzati positivamente dalle iniziative di Accorinti e dalla sua capacità di trascinamento.

Però tali azioni sono apparse slegate dal contesto dell’azione politico-amministrativa della giunta, episodi occasionali imputabili alla personalità di Renato o dell’assessore di turno: affermazioni di un’identità individuale e non elemento politico caratterizzante il governo cittadino, attente più all’estetica che all’efficacia.

Questa giunta ha provato a “far funzionare” le cose, il che comunque ha una valenza positiva, specie se tra le cose vi è quel servizio pubblico perennemente sotto attacco.

Segnaliamo però, tra gli altri, i nodi irrisolti dell’immigrazione, con particolare riferimento ai minori non accompagnati; la questione della discarica di Pace e più in generale la difficoltà a far avvertire ai cittadini il cambio di passo nella gestione dei rifiuti, nonostante progressi siano stati realizzati nella differenziata e nell’organizzazione complessiva; l’emergenza abitativa, in cui si registrano alcuni risultati ma ancora assolutamente inadeguati rispetto alla domanda sociale; il conflitto d’interesse a nostro avviso esistente nella gestione dell’urbanistica; la difficoltà a far camminare davvero la macchina comunale; le difficili relazioni col mondo del lavoro; il mancato scioglimento della Stu, ecc..

Certamente alcune di queste problematiche, come il caso della gestione dei rifiuti, derivano da cause non imputabili all’amministrazione, oppure, come la questione immigrazione, sono di una tale enormità che non si può pretendere vengano risolte da un Comune.

Riscontriamo però sull’insieme dei temi indicati una chiara distanza tra enunciazioni e realizzazioni. Riteniamo che vi sia una insufficienza grave nelle strategie messe in campo, omissioni e lacune, una condotta non sempre lineare e coerente con la propria storia e con gli obiettivi dichiarati.

Debiti e Piano di riequilibrio

Certamente l’amministrazione Accorinti ha ereditato una situazione debitoria disastrosa.

Definiamo il contesto: storica arretratezza economica del meridione e della Sicilia; politiche neoliberiste di tagli ai finanziamenti che colpiscono tutti i comuni; federalismo fiscale che determina una maggiore difficoltà per quei comuni che operano in territori economicamente più poveri. A questi fattori si sono aggiunti in molti comuni meridionali e in diverse fasi storiche, il clientelismo, la corruzione, la scarsa capacità di visione strategica.

In questo quadro hanno fatto irruzione l’Europa e la crisi, e il modo in cui la crisi viene gestita in Europa e soprattutto in Italia, dove alla recessione si è risposto e si risponde con…misure recessive !

L’immenso debito del comune di Messina è sicuramente il portato stratificato di tutti questi fattori e della progressiva incapacità/impossibilità da parte delle amministrazioni che si sono succedute di fare fronte ai creditori ma, soprattutto, di fornire quel livello minimo di servizi necessari a garantire un livello di vita dignitoso alla cittadinanza.

Ma alla fine tutti i nodi sono venuti al pettine. Messina era in una condizione di prostrazione senza eguali persino rispetto alle altre città del meridione e della stessa Sicilia. Gli autobus erano ormai una leggenda metropolitana, la spazzatura non veniva raccolta, della differenziata nemmeno a parlarne, le strade si riempivano di buche che nessuno copriva nemmeno temporaneamente, il teatro era praticamente chiuso, gli stipendi delle società partecipate (spesso in guerra tra di loro) venivano pagati con ritardi di mesi, così come quelli dei servizi sociali, i cui lavoratori e lavoratrici assediavano stabilmente un Palazzo Zanca blindato. Più che al dissesto, Messina era al collasso. Collasso che dalla sfera economica investiva i rapporti sociali e la stessa dimensione morale: disgregazione, rassegnazione, nessun senso di appartenenza, menefreghismo, individualismo.

A fronte della gravissima situazione debitoria l’amministrazione ha rielaborato il piano di riequilibrio di Croce per accedere ai finanziamenti del fondo di rotazione ed evitare il dissesto.

Siamo consapevoli della complessità della materia e non ci saremmo opposti se l’amministrazione invece avesse scelto di dare corso al dissesto (la cui dichiarazione è comunque competenza del Consiglio ed eventualmente della Corte dei Conti e del Prefetto). Comprendiamo, inoltre, le ragioni di chi ha ritenuto inopportuno varare questo piano: ma non abbiamo accettato l’idea che esso rappresentasse il paradigma del “tradimento” della rivoluzione accorintiana e del suo asservimento ai poteri forti della città.

Ciò non significa affatto condividere automaticamente il modo in cui il Piano è stato concretamente costruito né tanto meno implica chiudere gli occhi dinanzi ai limiti e alle criticità di questa amministrazione.

Tanto è vero che sia all’interno di Rifondazione che di CMdB hanno continuato a convivere valutazioni diverse su quale fosse la scelta più opportuna al riguardo.

Tale questione ha invece rivestito carattere dirimente e ha contribuito a disgregare il movimento e la sinistra: se in questo documento ci soffermiamo ora sui temi del dibattito e ribadiamo alcune nostre posizioni, pur senza poterle approfondire, non è per spocchia o contrasto verso chi la pensa diversamente, al contrario, è per sostenere che il tema è sicuramente rilevante, ha implicazioni che rimandano alla stessa opportunità di concorrere per il governo degli enti locali in questa fase storica, ma ci sono i margini per approfondire ulteriormente il confronto senza farne un elemento necessariamente divisivo.

Qualcuno ha sostenuto che col dissesto avremmo scaricato con chiarezza le responsabilità politiche sulle passate amministrazioni. Per noi ciò può essere parzialmente vero, ma è anche vero che dopo un anno di amministrazione e grandi promesse il boomerang emotivo di un fallimento economico e delle sue conseguenze sarebbe stato comunque tutto su questa amministrazione. Per evitare questo inconveniente occorreva indicare con chiarezza questa strada nel programma e nella propaganda, cosa che non è stata fatta, e dichiarare quindi il dissesto il giorno dopo l’insediamento.

Per i critici il piano vincola la città per i prossimi dieci anni, ma anche il dissesto può avere, e spesso ha, durata più che decennale e non segna affatto una cesura contabile col passato: non essendoci praticamente più forme di finanziamento statali dei debiti, la “massa attiva”, cioè i soldi per pagare i creditori, va recuperata anno per anno attraverso il “bilancio stabilmente riequilibrato” che, sul piano economico e finanziario, è fratello gemello del riequilibrio (ma senza il contributo del fondo di rotazione), però pone in organi esterni all’amministrazione, non elettivi, una tutela generale sulla politica economica dell’ente locale e poteri di scelta insindacabili che possono condurre a riduzioni occupazionali, specie tra i precari, svendite del patrimonio edilizio comunale, privatizzazioni dei servizi.

Qualche altro ha sostenuto che col riequilibrio si vuole mascherare il dissesto, ma la normativa prevede espressamente che a questo strumento possono ricorrere quei comuni, e solo quelli, che sono in condizione di dissesto, quindi tale accusa ci appare infondata. Vero che con la procedura del riequilibrio, stante la lentezza con cui è stata esaminata dagli organi preposti, si rischia di far passare 5 anni dalla caduta della giunta Buzzanca, e quindi metterla in sicurezza rispetto alle sanzioni previste dall’ art. 6, comma 2 del D.lgs. n. 149/2011. Vero anche però che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 13 della stessa legge e che, di conseguenza, come recentemente ribadito dalla sentenza 11/3/2015 del tar Catania in merito al dissesto di Milazzo, anche il predetto art. 6 è inapplicabile in Sicilia.

Altri hanno accusato l’amministrazione di voler pagare tutti i debiti, mentre non pochi di questi sarebbero non dovuti, e comunque con la procedura semplificata si può ridurre il pagamento a circa il 60% del totale. In realtà la totalità dei debiti, che ci risulti, o sono contenziosi in corso (il 90% circa dell’importo totale) o accertati con sentenza o comunque non più opponibili. La loro quantificazione, infatti, è frutto di un calcolo probabilistico sull’esito dei processi in corso, e ha portato a un piano di riequilibrio che ammonta (casualmente) proprio al 60% del richiesto. Non vi è modo di non pagare un debito accertato con sentenza. La procedura semplificata può essere praticata solo se le controparti accettano tale proposta e il Comune dispone nell’immediato di una somma complessiva “cache” pari a circa il 60% dell’intero ammontare del debito rilevato, cosa che nel caso del comune di Messina ovviamente non è pensabile. Anche applicando tale procedura ai debiti già accertati e non in corso di giudizio, l’importo sarebbe stato troppo elevato. Se tali debiti riteniamo invece siano stati contratti in maniera truffaldina o con soggetti inidonei o per servizi non effettivamente resi, dobbiamo essere in grado di dimostrarlo, ma questo esula dal campo del dibattito economico e politico ed investe il campo giudiziario, in cui le responsabilità vanno individuate specificatamente, non si può pensare di perseguirle attraverso la dichiarazione del dissesto.

La rottura nel gruppo consiliare e nel movimento

Più in generale, in diversi hanno rilevato che i Comuni vengono piegati col piano di riequilibrio a fare da esattori delle politiche di austerity. E’ in parte vero, ma l’indebitamento dei comuni è dovuto alle politiche recessive, al taglio dei trasferimenti statali e regionali, al federalismo fiscale, alla crisi economica. I debiti si sono formati a causa della forbice che è andata progressivamente divaricandosi tra le competenze di welfare sempre maggiori assegnate ai comuni e le risorse sempre più esigue a loro trasferite.

E’ questo che bisogna denunciare, insieme alle norme sempre più rigide di controllo (patto di stabilità ecc.) che hanno progressivamente ristretto i margini di discrezionalità degli enti locali. Non individuare con chiarezza il rapporto causa – effetto nella catena delle responsabilità è politicamente sbagliato.

L’economia neoliberista e le politiche di austerity si caratterizzano per la riduzione della spesa pubblica. Se hai commissionato dei lavori e non li paghi perché non hai soldi, accumuli debiti: non onorare questi debiti è socialmente iniquo ed economicamente recessivo, una politica di austerity “a posteriori” doppiamente odiosa. Liberare queste risorse saldando i debiti contratti è mediamente una misura espansiva e non recessiva, serve a non far fallire le imprese e quindi a mantenere posti di lavoro, oltre che a garantire servizi. Quindi non significa affatto aderire automaticamente ai principi del neoliberismo e dell’austerity ma, esattamente al contrario, può significare provare a resistervi.

E’ però vero che ciò dipende anche dall’intelligenza politica con cui procedi alla ricostruzione dei debiti e al piano dei pagamenti, dove vai a prendere le risorse e quali creditori vai a soddisfare, la distribuzione sociale dei carichi e l’ordine delle priorità.

Insomma, la scelta se provare a fare il Piano o ammettere il dissesto, così come l’eventuale redazione del Piano, erano fatti politici che andavano deliberati e costruiti attraverso processi politici decisionali il più allargati possibile: sicuramente, in primo luogo, attraverso un confronto serrato e un’interlocuzione vera col proprio gruppo consiliare e coi movimenti che ti hanno sostenuto e ti sostengono.

Questo non è assolutamente avvenuto, e ciò ha sicuramente impedito non solo un dibattito vero tra riequilibrio e dissesto, ma anche che potessero essere apportati al Piano degli ipotetici miglioramenti, dei correttivi, sia in senso tecnico che politico.

Non possiamo dire se questo avrebbe attutito lo scontro tra i diversi punti di vista su tale materia, ma siamo convinti che la rottura sia precipitata nelle forme che sappiamo perché non solo il piano è stato deciso ed elaborato senza alcun vero confronto preventivo, ma tale questione ha impattato una situazione in cui il rapporto di fiducia e di collaborazione tra amministrazione e consiglieri era già ampiamente compromesso. Se questa stessa vicenda si fosse innescata su un diverso stato dei rapporti tra giunta, gruppo consiliare e movimento, gli esiti della discussione forse sarebbero stati diversi.

Infatti, anche il rapporto del gruppo consiliare con l’amministrazione è stato assai difficile. Doppiamente difficile, perché i consiglieri hanno vissuto da un lato le stesse problematiche del resto del movimento, dall’altro hanno accumulato frustrazioni aggiuntive proprie del ruolo, acuite dalla visibilità e dalle responsabilità, politiche e giuridiche, inerenti la funzione istituzionale.

La frase di Renato “io ho 40 consiglieri” non è una semplice boutade, la manifestazione di un carattere gioviale e compagnone o una comprensibile apertura tattica alla maggioranza d’aula: esprime una cultura politica di segno assolutamente regressivo. E’ stato un preciso segnale di delegittimazione verso i propri consiglieri. I quali, solitamente, saranno informati di scelte fondamentali a cose fatte, dopo gli altri, talvolta le apprenderanno dalla stampa o direttamente in aula. Assolutamente come tutti gli altri, o peggio. E questo non “ogni tanto”, “per dimenticanza”, su questioni marginali, ma sistematicamente e su scelte rilevanti e strategiche. In una finta equità col resto del Consiglio, perché i consiglieri di Cmdb sono irrilevanti in quanto pochi, eterogenei per carattere e cultura politica, e avvertono su di sé il vincolo morale e politico a sostenere le decisioni della giunta “a prescindere”.

Una volta che le motivazioni a stare insieme hanno raggiunto il punto di rottura, le criticità tecniche e politiche del Piano sono divenute per alcuni emblematiche dei limiti politici di questa amministrazione, della sua incapacità a porsi come soggetto di resistenza ai processi in corso. La critica al Piano, da valutare con serietà e attenzione in sé, è divenuta, noi crediamo, metafora, più facilmente intellegibile e concreta, della critica al modo di concepire la democrazia e i rapporti politici e sociali di questa Giunta.

Questa operazione ha avuto parzialmente successo nel manifestare anzitempo la necessità della rescissione del cordone ombelicale con l’amministrazione, ma ha anche incontrato il limite di avere due debolezze intrinseche: il fatto che l’unica alternativa possibile restava comunque il dissesto, il che non ha convinto noi e tanti altri dell’opportunità di rompere proprio su tale tematica; l’assenza di un obiettivo politico chiaro e dichiarato: vogliamo mandare a casa Accorinti? Vogliamo che ritiri il piano? Vogliamo che cambi qualche assessore? Vogliamo che si ridiscutano le modalità del rapporto con l’amministrazione?

Questa situazione complessa ha reso difficile sviluppare un dibattito costruttivo che si è rapidamente trasformato, complice anche la modalità comunicativa indotta dai social network, in un conflitto deflagrante interno al movimento e alla sinistra, che invece di costruire un’alternativa ha provocato macerie.

La fine di una speranza

Rifondazione ha preso atto di non essere riconosciuta politicamente da questa giunta, ma ha tuttavia cercato di salvare il salvabile, in considerazione dell’importanza e dell’originalità di questa esperienza, delle forze che aveva attivato, degli equilibri di potere che era riuscita comunque a scuotere.

Ci siamo riservati libertà di critica ogni qual volta riscontrassimo insufficienze e limiti nell’operato dell’amministrazione, ma non ci siamo iscritti al club degli avversari in via pregiudiziale per tanti motivi: perché abbiamo ritenuto l’esperienza in divenire e con una propria dialettica interna; perché siamo stati responsabilmente consapevoli che gli scenari alternativi erano assolutamente deteriori; perché comunque su alcuni temi abbiamo riconosciuto a diversi assessori disponibilità al dialogo, competenza, impegno; perché non abbiamo creduto che Renato avesse “tradito”, ma che semplicemente questa giunta fosse un’espressione dell’incultura politica che domina questi tempi, e che su questo si poteva e doveva lavorare.

La speranza era che fosse per lo meno possibile un “buon governo”, poter ottener alcuni risultati importanti per la città e magari un rilancio, un recupero dello spirito originario, in considerazione anche delle tante battaglie ed esperienze in comune con Renato e parte degli assessori.

Ma soprattutto, ci premeva non disperdere del tutto quella corrente positiva di energie, di tante persone, molti giovani, che si erano avvicinati alla politica attiva attraverso questa campagna elettorale e che poi si sono organizzati nel movimento CMdB che ha rappresentato una delle esperienze più fresche, interessanti e innovative nel panorama politico messinese di questi ultimi anni.

Abbiamo cercato per quanto possibile di tenere tutte le porte aperte, di non farci chiudere nel recinto dei soliti noti, di mantenere un dialogo con i nuovi avversari e i vecchi sostenitori della giunta, provando a resistere alla forza centrifuga che ha disintegrato e parcellizzato tutto ciò che esisteva a sinistra. Anche con la costruzione dell’Altra Europa, ci proponevamo di andare in questa direzione, ma evidentemente sono mancate le condizioni.

Ma su tutto questo ha pesato sempre più il dubbio che gli errori commessi non fossero solo frutto di inesperienza politica e di limiti culturali. Il tessuto delle nomine di Renato lascia intravedere i gruppi sociali che stanno alle sue spalle e che hanno un ruolo preminente nel governo cittadino.

Qui non siamo neppure dinanzi a una coalizione “de facto”, perché in una coalizione tra le varie parti ci sono accordi sulla base del diverso peso politico e della propria capacità di rappresentare una visione della città, vi sono limiti precisi e trasparenti sui confini della coalizione stessa, per cui si sa chi è dentro e chi è fuori, chi al governo e chi all’opposizione. Qui no.

Riteniamo che precisi interessi sociali, gruppi professionali, forse persino gruppi politici estranei allo schieramento elettorale che ha sostenuto Renato, formalmente ad esso avversi, siano in realtà rappresentati nel governo della città, che il loro peso sia determinante nelle scelte che contano. Vi è insomma sempre più nitido e irreversibile un segno complessivo dell’amministrazione che riteniamo negativo, per cui anche quanto di positivo i singoli assessori riescono a fare, è subalterno a logiche sbagliate, di fatto assume il significato di un’operazione di facciata, o autoassolutoria, che nasconde una “sostanza” assolutamente indigesta a quella parte che l’ha appoggiata dal primo momento.

Questa sostanza sta intanto nelle questioni inerenti l’urbanistica, nel Prg e nel Piau, nei rapporti con l’autorità portuale, nei servizi sociali, nella gestione delle partecipate e della multiservizi: laddove insomma vi sono forti interessi in gioco e si creano centri di potere che gestiscono oggi strutture vitali dell’amministrazione e domani gestiranno il dopo Accorinti.

Le ultime nomine e il contestuale rimescolamento di deleghe, ci parlano di un ulteriore smottamento di potere verso soggetti che nulla hanno a che vedere col progetto originario.

Eller sarà un tecnico bravissimo ma è una figura politicamente inquietante e incompatibile con le coordinate presunte di questa amministrazione e non si può pensare che l’assessore che dovrà definire le linee economiche di questa giunta in questo delicato momento, ma anche per il futuro, sia lì solo per fare il compitino di ragioneria: diviene il deus ex machina politico della giunta, e non a caso Signorino, ritenuto finora il vero sindaco da tanti, viene anche “dimesso” da vice sindaco; non a caso tra le deleghe di Eller figurano settori chiave come le partecipate, il personale e il patrimonio. E’ veramente un caso che mentre il Pd messinese si appresta a sfiduciare il sindaco o ne richiede il commissariamento, venga nominato plenipotenziario un renziano di ferro? Non appare tutto ciò come fotocopia della vicenda di Alessandro Baccei, toscano e renziano, che Crocetta ha dovuto nominare “concordandolo” con Renzi e del Rio, che di fatto ha commissariato la gestione finanziaria della Sicilia? E perché contestualmente gli assessori Perna e Panarello, entrambe personalità di grande spessore culturale, vengono sostituiti alla cultura e all’istruzione da una figura che non appartiene certo al mondo accorintiano, ma che neppure pare avere un curriculum irresistibile? Questa squadra non solo non è più da tempo la “nostra” giunta, ma ci appare sempre più chiaramente portatrice di un progetto politico che riteniamo sbagliato.

Questa Giunta non solo ha emarginato da subito tutti coloro che appartenevano alla sinistra organizzata, ma nel tempo ha perso per strada molti di coloro che si erano impegnati in prima fila in questa avventura: Todesco, Cucinotta, Mantineo, Perna, Panarello, cui ritengo doveroso aggiungere Ciacci, fino alla rimozione di Signorino dal ruolo di vice sindaco. Abbiamo ampiamente sopra espresso il nostro giudizio negativo sulle modalità con cui molti di loro erano stati nominati e non sempre siamo stati entusiasti dell’operato di ciascuno di loro. Ma se prima questa amministrazione ci appariva carente sotto il profilo politico, oggi essa ci pare abbia smarrito del tutto l’anima originaria.

Senza personalizzare e senza nulla togliere al loro spessore professionale e al loro impegno da amministratori, un governo cittadino allargato composto da Le Donne, Cacciola, De Cola, Termini, Foti, Santisi, Eller, Ursino, Puglisi, cui aggiungere la nomina per un giorno di Elio Conti Nibali, è per noi estraneo e politicamente distante, un contesto nel quale Ialacqua e Pino ci appaiono capitati per caso, Signorino un sopravvissuto, Accorinti un ornamento o, peggio, un paravento.

In tale contesto anche il piano di riequilibrio, transitato da Signorino a Eller, ci preoccupa molto più che in passato, e ancor più ci preoccupano il Salvacolline di De Cola, ereditato dalla giunta Buzzanca e la piccola multiservizi targata Leonardo Termini.

Questo non vuol dire che questa amministrazione non possa produrre atti amministrativi importanti e sostenibili, che non vi siano assessori animati dalle migliori intenzioni. Ma non vi è un percorso condiviso e ciò che rappresenta, sotto il profilo del modello di democrazia di cui è complessivamente portatrice e degli interessi sociali che vi appaiono rappresentati in maniera preminente, ha segno decisamente regressivo.

Al di là del giudizio sugli atti amministrativi di questa giunta, sul piano politico essa non sedimenterà, non può sedimentare, nulla di positivo.

Qualcun altro invece si prepara ad avvantaggiarsi delle operazioni di risanamento economico e amministrativo avviate da essa. I vecchi centri di potere, politici ed affaristici, non sono stati messi ai margini e stanno ridefinendo i rapporti di forza in vista di nuovi equilibri.

Riassumendo: sullo sfondo delle oggettive e crescenti difficoltà ad amministrare e a governare in maniera democratica la cosa pubblica, determinate dal quadro economico e dalle scelte politiche nazionali ed europee, aggravate dalle peculiarità messinesi, la mancanza di una vera e accettabile cultura politica è stata surrogata da una semplicistica visione manichea del mondo diviso in buoni e cattivi e da una cultura di governo giacobina. Ciò ha impedito di comprendere per tempo la difficoltà a dover amministrare in questa fase storica in un contesto compromesso e degradato come quello di Messina, ha reso quasi impossibile cogliere la complessità degli interessi in campo e le ragioni dei soggetti politici e sociali con cui ci si doveva confrontare. Un programma credibile è stato sostituito dalla narrazione di Renato: una propaganda continua tesa a suscitare aspettative, spesso deluse, di una rapida e trionfale palingenesi. Le colpe del mancato “avvento” vengono scaricate sul “Male” che continua a operare, annidato tra impiegati e dirigenti comunali, tra i consiglieri, in quanti se ne sono andati, in “certa stampa”, in quelli che non capiscono, nei bottegai… Prodotto di questa sottocultura politica e ad essa funzionale, è una falsa idea di democrazia soppiantata da una visione leaderistico-carismatica, in cui si ascoltano tutti allo stesso modo ma si decide in solitudine.

Questa condizione di partecipazione tradita e di insufficienza politica e amministrativa, ha progressivamente logorato i rapporti con la parte più attiva e socialmente impegnata del movimento, fino a determinare una serie di fuoriuscite e alcune eclatanti rotture, a cominciare dal gruppo consiliare con il passaggio al gruppo misto di due consiglieri su quattro. Elemento catalizzatore della diaspora è divenuta la critica al piano di riequilibrio, il quale invece, a nostro avviso, è soggetto a valutazioni complesse e comunque, in astratto, preferibile al dissesto.

Il problema di fondo di questa giunta quindi, al di là di specifiche vicende amministrative più o meno gravi, è per noi nella mancata scelta di campo politica e sociale e nella pericolosa e non condivisibile visione della democrazia e della partecipazione. Da questi nodi fondamentali derivano l’opacità nei criteri delle nomine e la loro caratterizzazione in senso sociale e politico.

Un insieme di questioni che si sono cumulate fino a farci apparire oggi questa amministrazione permeata da forze e interessi a noi contrapposti, per cui diamo atto che, come Rifondazione, siamo passati, nei rapporti con questa giunta, dall’entusiasmo alla marginalizzazione, dalla marginalità all’estraneazione e oggi dall’estraneità all’opposizione, sia pure attenta e costruttiva.

Che fare?

Noi non crediamo che questo Consiglio Comunale voterà la sfiducia, non a breve comunque, e in ogni caso, nonostante il giudizio sopra espresso, valutiamo negativamente tale ipotesi: perché sarebbe un vulnus rispetto alle scelte democraticamente compiute dall’elettorato in merito all’elezione diretta del sindaco, e poco vale che pure il consiglio sia stato eletto; perché Messina ha già sofferto abbastanza per i commissariamenti subiti; perché i partiti di cui sono espressione la stragrande maggioranza dei consiglieri, non hanno titolo per giudicare così negativamente l’operato di questa amministrazione, in quanto molte delle sue difficoltà, cioè delle tragedie della città, derivano dalle scelte compiute da queste formazioni politiche al governo della città, della Regione o nazionale, o dalla loro sostanziale complicità anche quando non governavano.

Sfiducia o non sfiducia, dobbiamo utilizzare il tempo restante di vita di questa amministrazione per ridefinire un perimetro politico e sociale da cui ripartire.

La sinistra è oggi più debole e divisa di tre anni addietro, e non si intravedono segnali di riscossa, ma non dobbiamo leggere l’esperienza fatta solo in termini di negatività: abbiamo accumulato esperienza, conoscenza, ci siamo sperimentati e confrontati con i temi del governo delle città, abbiamo intrecciato relazioni che vanno oltre i nostri ambiti abituali e dobbiamo fare in modo di metterle a valore.

Al tempo stesso non possiamo vivere ripiegati sul nostro ombelico: vi sono guerre sanguinose intorno a noi, che si consumano in una spirale spaventosa tra guerre neo coloniali e terrorismo fondamentalista, e il nostro paese sarà sempre più impegnato sul terreno in Libia; la tragedia dei migranti, spinta anche da queste guerre ma non solo, entra ogni giorno nelle nostre case e ha messo a nudo gli egoismi e i razzismi dell’Europa; Europa nella quale soffiano sempre più forti venti di destra, neo nazisti e neo fascisti, xenofobi, razzisti; il nostro presidente del consiglio, dopo avere massacrato il lavoro, lo stato sociale, la scuola, sta portando l’attacco finale alle istituzioni e alla costituzione, configurando nei fatti un sistema neo autoritario; sul piano energetico e ambientale le vicende connesse all’ultimo referendum e il caso giudiziario Tempa Rossa, dopo le vicende bancarie che hanno coinvolto la famiglia Boschi, hanno evidenziato gli interessi affaristici cui è obbediente il governo Renzi e segnalato la difficoltà di risposte di massa persino sul terreno ambientale.

D’altro canto, se la narrazione da noi fatta circa lo sviluppo involutivo dell’esperienza Accorinti è in qualche modo condivisibile, essa apre la strada a riflessioni necessarie e non scontate circa il ruolo dei movimenti, la loro tenuta democratica, i concetti stessi di democrazia e partecipazione, la possibilità di agire quali soggetti della trasformazione senza avere una visione del mondo strutturata e dichiarata, sulla stessa possibilità/opportunità di assumere, quanto meno in assenza di un fortissimo e consolidato consenso di massa, la guida di un ente locale e amministrarlo senza doversi piegare alle logiche imposte dalle politiche neo liberiste e recessive, ma anzi utilizzare l’amministrazione quale casamatta per la resistenza contro di esse.

Nell’immediato e in linea con l’analisi sviluppata, occorre approfondire quanto questa amministrazione sta facendo in termini di: bilancio, piano regolatore e piau, servizi sociali, immigrazione, gestione rifiuti e acqua pubblica, emergenza abitativa, rapporti con l’autorità portuale, ecc…

Rifondazione, consapevole dei suoi limiti e delle sue scarse forze, aderisce alle campagne referendarie che si svilupperanno da qui all’autunno, e propone a tutta la sinistra, politica e sociale, di avviare un processo di confronto vero su tematiche specifiche, provando a intrecciare un dibattito aperto che possa, nel rispetto delle differenze, riannodare i fili di un pensiero critico e di una pratica alternativa, con l’obiettivo di ricostituire in prospettiva un agire comune che provi a:

  • Individuare le battaglie comuni da portare nella società su cui ricostruire un insediamento della sinistra, sia sui temi locali che su quelli più generali;

  • interloquire con maggior forza, dall’opposizione e nella chiarezza dei ruoli, con l’amministrazione Accorinti, per intestarsi alcune proposte concrete, da portare avanti nel confronto e/o nel conflitto;

  • porre un argine al ritorno inevitabile dei vecchi poteri e delle vecchie logiche, non limitandosi a traguardare le prossime elezioni regionali prima e amministrative dopo, troppo ravvicinate forse per metabolizzare e mutare la condizione attuale;

  • non abdicare al proprio ruolo politico e culturale, ma riproporre un diverso modo di fare politica, in cui la sinistra non rinunci ai suoi grandi ideali e alla sua storia, ma a partire da questi sia in grado di parlare alle vecchie e nuove generazioni.

Il segretario provinciale

Alfredo Crupi