di Alessandra Sciurba –
Sono le otto del mattino quando raggiungiamo l’ingresso del Cara di Mineo. È il primo marzo, una domenica di sole. Dalla strada si vede il centro immerso nella luce della campagna siciliana. Decine e decine di casette colorate, il campo da calcio e, in lontananza, i giochi per i bambini. Visto così, dal di fuori, sembra una cittadella accogliente. Che la verità sia ben diversa importa poco. Tutto ciò che riguarda le migrazioni, in questo paese, non è mai oggetto di verità.
La nostra non è una visita annunciata e, per puro caso, il giorno prima è morto per cause ancora non accertate, uno degli ‘ospiti’ del centro: una notizia appresa pochi minuti prima di arrivare.
I poliziotti di guardia chiedono un’autorizzazione, ma l’europarlamentare Eleonora Forenza (L’Altra Europa con Tsipras – GUE/NGL) fa valere le proprie ragioni: i deputati nazionali ed europei non hanno bisogno di permessi per accedere a queste strutture. Con lei entriamo io e Pierpaolo Montalto, avvocato e segretario provinciale di Rifondazione Comunista. Fuori tante compagne e tanti compagni di strada, come decine di altre volte, a dire che per noi quel luogo non è e non sarà mai ‘normalizzato’, che abbiamo un’altra idea di vita degna e di diritti.
I percorsi e le storie di ognuna delle più di 3000 persone presenti dentro il Cara di Mineo la mattina della nostra visita sono emblematici delle dinamiche globali che innervano il nostro mondo al collasso, e della loro interazione con quelle locali, miserabili e altrettanto desolanti. Le vite degli ‘ospiti’ del Residence degli aranci, costruito per dei militari americani che non hanno mai voluto abitarlo, raccontano la guerra sempre più diffusa e inarrestabile, e il cinismo che la riproduce ovunque. Raccontano l’assurdità delle politiche migratorie e dell’asilo europee, che costringono a viaggi infiniti tra detenzione, violenze, morte dei propri cari, arricchendo trafficanti di donne, uomini e bambini, che ogni giorno ringraziano l’Europa di non permettere ai profughi di salire in sicurezza su un aereo, con un semplice visto in mano e raggiungere la salvezza. Raccontano poi la miseria italiana della speculazione su ogni cosa, anche e soprattutto sulle tragedie e sulla sofferenza.
Ci incamminiamo oltre il cancello e le sbarre, lungo la strada che porta alla via principale del Cara, come attraversassimo un passaggio dimensionale, fino al cuore di quel villaggio di apartheid geografico e sociale.
Difficile rendersi conto di quante dinamiche complesse attraversino questo spazio in sospensione. Ma è da subito evidente come al suo interno vigano regole particolari. Ci sono piccoli bazar ovunque. Chi può, trova all’esterno qualunque cosa e poi la vende. Mentre aspettavamo di essere autorizzati all’ingresso, abbiamo visto entrare e uscire ragazzi carichi di oggetti di ogni genere, passeggini rotti, persino mobili, scrupolosamente visionati dai poliziotti di guardia.
Gina (nome di fantasia) è la prima donna che incontriamo. Viene dall’Africa francofona. Sua marito è stato ucciso in Libia, lei è riuscita ad arrivare in Sicilia. È al centro da 10 mesi. Prova un senso di gratitudine per l’Italia perché è stata appena operata alle ovaie e ha ricevuto assistenza. E poi perché uno psicologo l’ha accompagnata nel suo percorso di lutto. Sopravvive nel Cara di Mineo, però, perché sta sempre nella sua stanza. Non è facile per una donna, lì dentro, ci dice.
E sono le donne, – poche, pochissime rispetto alle migliaia di ‘ospiti’ maschi – quelle con cui cerchiamo di interagire subito. Due ragazze nigeriane vanno di fretta. Ci dicono che lì se la cavano bene, che hanno anche trovato un fidanzato, che non sono come le altre che invece, lì dentro, si mettono nei guai e abortiscono. Non riusciamo ad avere maggiori dettagli.
Il nostro tentativo di parlare con un’altra signora nigeriana, che in pigiama sta raggiungendo l’infermeria, sembra creare un po’ di scompiglio. Alcuni uomini, africani anche loro, ci fanno segno di non ascoltarla, che è matta. Lei va via veloce, e dice soltanto, tra i denti: qui dentro per le donne è una scuola di vita.
L’ultimo caso di violenza sessuale dentro il Cara risale a poco tempo fa, al 31 gennaio del 2015. Una donna nigeriana è stata segregata da un suo connazionale in uno dei graziosi bungalow a tinte pastello, e lì ripetutamente abusata. La storia è emersa solo nel momento in cui lei è riuscita a fuggire dalla casa e a raggiungere i poliziotti presenti in loco. Per tre mesi, nessuno si sarebbe accorto di nulla.
Perché queste poche donne sole rimangano nel centro, in mezzo a migliaia di uomini, è incomprensibile. Che dopo avere subito ogni sorta di violenza nel corso del loro lungo viaggio, si ritrovino in condizioni analoghe in un centro di accoglienza italiano presidiato dalla polizia è semplicemente inaccettabile.
Come si legge in una lettera che il Coordinamento di Consiglieri comunali del Calatino, nato proprio in opposizione al Cara, ha inviato al Consorzio Calatino ‘Terra di accoglienza’ (composto da alcuni Comuni della zona cui è affidata l’amministrazione de centro), e, per conoscenza, anche al Ministro dell’Interno e al Prefetto di Catania, “la situazione delle donne al Cara presenta alcune problematicità particolari. Dal colloquio con gli operatori della Croce Rossa, ma anche con medici degli ospedali di Caltagirone e Catania, emerge la presenza importante di donne incinte, tantissime a causa di stupri avvenuti prima dell’imbarco per l’Italia. Questa circostanza, aggiunta alle violenze di ogni genere subite e alla inquietante diceria che passa da tempo secondo la quale nel campo si pratichi la prostituzione, non si sa quanto per libera scelta delle donne, richiama le SS: VV. ad una assunzione di responsabilità nell’accertare questa situazione e nel chiedere che le donne vengano trasferite al più presto in strutture Sprar per persone vulnerabili”.
Effettivamente, il fatto che una donna possa essere segregata e abusata per mesi all’interno del Cara non rende così incredibile l’ipotesi di un giro di prostituzione interno, magari non solo femminile, e porta a prestare attenzione anche a quell’altra ‘inquietante diceria’ che racconta come alcuni migranti siano adescati pure all’esterno della struttura.
Tra l’interno e l’esterno del centro, in quella campagna aperta in mezzo al nulla, sembra esistere infatti una relazione intensa e perversa. Molti ‘ospiti’ raccontano che loro, o loro amici, hanno lavorato o lavorano ancora nei campi circostanti come braccianti agricoli. C’è un particolare punto della strada in cui vengono prelevati, secondo una dinamica tipica del caporalato nostrano, per portarli sul posto di lavoro. Il Cara, insomma, sembra essere diventato anche una immensa riserva di manodopera a basso costo inserita nell’amplissimo circuito dello sfruttamento agricolo dei migranti in Sicilia.
Donne stuprate, forse prostituite, e nuove forme di schiavitù. Ma questa parte della storia non trova certo spazio nella narrazione edulcorata che vorrebbe Mineo il prototipo della buona accoglienza, come racconta il video documentario Io sono io e tu sei tu, finanziato dalla Fondazione Integra.
Una mezz’ora dopo il nostro ingresso ci raggiunge, trafelata, una delle vice direttrici, che da quel momento resterà sempre con noi. Dalle sue parole, la vita nel centro sembra quasi quella di un villaggio turistico: la squadra di calcio, il teatro, la scuola di italiano. Parla molto, ostentando un orgoglio che si affievolisce solo quando chiediamo del ragazzo morto la sera prima: troppo presto per dire qualunque cosa. E a giorni dall’accaduto, mentre scrivo, sembra certo solo che non si sia trattato di un episodio di violenza, senza escludere però l’ipotesi dell’autolesionismo.
Non sarebbe il primo. Gli anni di vita del Cara sono costellati da morti simili, tra cui quella di un ragazzo eritreo di 21 anni trovato con una corda al collo, il 14 dicembre del 2013, in uno dei bungalow del ridente residence.
La vice direttrice nega ogni tipo di sovraffollamento. Quando entriamo in una delle case, però, ci troviamo una stanza molto piccola con sei letti uno attaccato all’altro. Non c’è spazio per muoversi. Nell’unico fazzoletto di pavimento libero, mangiano alcuni signori pakistani. Pur essendoci la mensa (che casualmente è stata pulita da una decina di operatori proprio durante la nostra visita), sembra che gli ‘ospiti’ scelgono spesso di mangiare nelle camere. Non ci stupisce: lo spazio con tavole e panche che abbiamo visto non potrebbe accogliere più di un centinaio di persone a fronte delle migliaia che abitano il Cara.
Ci viene detto anche come il centro sia gestito ‘democraticamente’, attraverso l’elezione di un referente per ogni nazionalità, o per ogni gruppo etnico, qualora ce ne fosse più di uno per paese. Il giovane ragazzo ghanese che ci ha seguiti per quasi tutta la visita però, ci tiene a sottolineare che lui è rappresentato solo da se stesso. Questo sistema di controllo, indispensabile in un posto così immenso, rischia chiaramente di costruire una ‘zona grigia’ all’interno della quale il misero potere che ci si può accaparrare diventa strumento di divisioni interne, di delazione, di rinnovate paure.
Tutti gli uomini con cui parliamo, da qualunque paese provengano, sembrano infatti fare fatica a esprimersi liberamente. I loro racconti, però, convergono tutti su un punto: l’attesa estenuante nel limbo delle procedure d’asilo. Un’attesa che sta togliendo senso alla loro vita. Dieci mesi, un anno, anche due per chi ha fatto appello contro un diniego e ancora attende una risposta. Nel frattempo, il vuoto. Perché imparare l’italiano se non si ha alcuna certezza sul proprio futuro in questo paese? E infatti nessuno lo parla. Un gruppo di profughi maliani dice di avere passato mesi e mesi in Libia, con la paura di morire ogni giorno. Di fronte a quello che hanno vissuto, la situazione che stanno subendo adesso non può spaventarli, ma quell’attesa può farli impazzire.
E ogni giorno in più che ciascuna di quelle persone trascorre in quel surreale non luogo, rappresenta un sacco di soldi per chi lo gestisce, per chi lo affitta, per chi ci specula. Ad essere maligni, verrebbe da pensare che non ci sia poi un grande interesse a velocizzare il lavoro delle commissioni territoriali.
Stigmatizzati come il pericolo principale delle nostre società in crisi, la sola presenza di questi migranti è una fonte di guadagno costante. E infatti, dopo una prima forte opposizione di diverse istituzioni, quando ancora il Cara era solo un progetto, oggi sono in pochi a denunciare ancora la realtà di questo posto. Per affrontare la crisi economica, mettere a profitto le vite di questa gente in fuga può diventare una soluzione. Oltre a tanti imprenditori e politici che hanno un ritorno diretto, sono moltissime le famiglie della zona che hanno un parente che, a vario titolo, sbarca il lunario lavorando nel Cara.
Tra i pochi rimasti a opporsi sul territorio, insieme a movimenti come quello della Rete antirazzista catanese, e alle formazioni locali di partiti come Rifondazione e Sel, il già citato Coordinamento di consiglieri comunali non ha mai smesso di denunciare, come si legge in una delibera del consiglio comunale di Caltagirone dell’8 agosto del 2014, “l’anomalia del tessuto logico” del Patto territoriale dell’economia sociale del Calatino. In quel protocollo d’intesa, infatti, il consorzio Sol. Calatino Cooperativa Sociale, l’ente cui dal 2011 sono affidati diversi servizi relativi al funzionamento e alla gestione del Cara di Mineo, appare come capofila con il compito, tra le altre cose, di ‘programmare’, ‘creare osservatori per la lettura dei bisogni’, ‘attivare incubatori di impresa per incentivare nuovi bacini occupazionali’, ‘coordinare e svolgere compiti di regia di tutti gli interventi nella gestione del welfare’. Uno strapotere inquietante in mano a dei privati, quindi, “che rischia di portare ad un monopolio vero e proprio delle attività economiche e sociali” non solo di Caltagirone, visto che buona parte del business dell’accoglienza nella Sicilia orientale è gestito dallo stesso Consorzio, che ha vinto appalti anche per un buon numero di centri Sprar.
L’inchiesta di Mafia Capitale ha gettato sul Cara ombre ancora più dense, svelando un sistema di corruzione davanti al quale stupisce la dichiarata sorpresa di figure cardine legate al centro, come il suo ‘creatore’ Giuseppe Castiglione, il presidente del consorzio Sol.Calatino, Paolo Ragusa, o la sindaca di Mineo Anna Aloisi.
In un dettagliato articolo apparso alla fine dell’anno scorso su Il Sette e mezzo Magazine, a firma di Giuliana Buzzone e Giacomo Belvedere, ad esempio, si raccontava bene come Luca Odevaine, arrestato nell’ambito dell’inchiesta su “Mafia Capitale” per corruzione aggravata, avesse da sempre giocato un ruolo tutt’altro che marginale nella storia del Cara. Nel 2013 è eletto come consulente esperto del Presidente del Consorzio dei Comuni del Calatino ‘Terra d’Accoglienza’, che abbiamo detto essere deputato alla gestione del Cara. Viene riconfermato nel 2014 proprio dalla sindaca di Mineo Aloisi, in forza dell’«importante ruolo svolto dal suddetto professionista nei rapporti tra Consorzio e Ministero dell’Interno, in Roma». Odevaine era comunque già supervisore del Cara almeno dal 2012, oltre che componente del Comitato di coordinamento nazionale emergenza Nord Africa.
Tralasciando alcuni particolari della lunga storia d’amore tra Odevaine e il Cara di Mineo, basti dire che lo ritroviamo anche come membro, nel giugno del 2014, della commissione giudicatrice per le proposte relative al bando per la gestione dei servizi del centro. Si tratta di quell’appalto di oltre 100 milioni di euro, oggi dichiarato illegittimo dall’Autorità Anticorruzione. Non a caso, la gara è vinta dall’Ati (associazione temporanea di imprese) con capogruppo mandatario il Consorzio Casa della Solidarietà, e come membri le stesse cooperative e aziende che già gestivano il Cara in precedenza: Sisifo, Sol.Calatino, Senis Hospes, Cascina Global Service, Pizzarotti e c. s.p.a, comitato provinciale della Croce Rossa Italiana. Rispetto al gruppo che aveva vinto l’appalto precedente, risulta cambiato solo il capofila, perché il Consorzio Sisifo, che aveva svolto questo ruolo, era da ultimo diventato impresentabile dopo lo scandalo delle docce antiscabbia dentro il Cpsa di Lampedusa. Ma ci sono anomalie peggiori. Nonostante il Patto Sicurezza firmato nel 2011 da tutti i sindaci del Calatino e di Catania prevedesse per Mineo un massimo di 2000 richiedenti asilo, il bando pubblicato dal Consorzio nel 2013 parlava improvvisamente di una struttura per 3000 persone. E infine, ancora più inspiegabilmente, la convenzione firmata con la ditta aggiudicatrice di quello stesso appalto specificava l’attivazione di due diversi canoni da versare alla ditta stessa: uno fisso per ospite fino al raggiungimento delle 3000 unità, e un secondo di entità diversa a partire dall’ingresso numero 3001 fino al raggiungimento delle 4000 unità. Questo aumento esponenziale in soli tre anni sembra non avere mai ricevuto alcuna autorizzazione formale. E in alcune intercettazioni ormai pubbliche, Odevaine, indisturbato tessitore del sistema di speculazione sull’accoglienza tra Roma e la Sicilia, pretende, subito dopo la vittoria dell’Ati, un ‘pizzo’ sempre maggiore per ognuno degli ‘ospiti presenti al Cara di Mineo, ormai arrivati a 4000: il centro di accoglienza più grande d’Europa è anche il più succulente tesoro cui attingere.
Un rebus di balletti e trasformismi tra nomi e sigle, cordate e bandi di gara, regolamenti e proclami che si sono susseguiti intorno al centro di Mineo. L’unica cosa che appare chiara è fino a che punto l’irrazionalità di un posto come quello, rispetto alla strutturale segregazione che crea, all’impossibilità di controllare le dinamiche che lo attraversano, all’ammassamento di migliaia di anime in un limbo insostenibile, risulti invece perfettamente razionale se si guarda al giro di soldi che produce.
Usciti dal centro, ci si ritrova quasi senza parole davanti a una giornalista che chiede cosa abbiamo visto: attraversare quelle strade non può bastare per capire. Si può parlare del sovraffollamento e delle donne dagli occhi bassi, della sofferenza diffusa per i tempi di attesa. Ma con la consapevolezza che quelli sono soltanto effetti collaterali di un sistema talmente immenso e talmente marcio da essere appena scalfito anche dalle inchieste giudiziarie adesso in corso. Troppo potere, troppi interessi, troppe ipocrisie.
Le villette colorate con i profughi che fanno i calciatori e gli attori di teatro. La favoletta della terra d’accoglienza e della solidarietà. E intanto il razzismo ipocrita di chi gioca a decidere dei sommersi e dei salvati sulle rotte del Mediterraneo, stando attenti che i salvati siano sempre abbastanza per continuare a fare soldi, mentre si convince un’opinione pubblica allo sbando che siamo noi a doverci difendere.
Forse è vero, forse da luoghi come il Cara di Mineo può nascere un odio che ci si riverserà contro. Un odio invocato ed evocato molto a lungo. Ma neanche questa paura, probabilmente, servirà a cambiare le cose.