di Paolo Ferrero
Mario Monicelli ha deciso di non essere più in mezzo a noi. Attraverso il cinema questo esile e grande uomo, con dignità e senso dell’umorismo, si è battuto sempre per la giustizia e l’uguaglianza. Ha parlato di guerra, di amicizia, di comunismo, di storia, di femminismo, e ancora pochi mesi fa di “rivoluzione”. Il suo sguardo è sempre stato quello degli umili, di chi combatte.
Per questo non bisogna essere particolarmente colti o appassionati di cinema per amare questo grande regista. La rassegnazione di Capannelle che si mette a mangiare pasta e ceci dopo aver sbagliato a fare il buco nel muro, ne I soliti ignoti, ce la ricordiamo tutti. Così come tutti ci ricordiamo della simpatia e della forza vitale di Monica Vitti, ne La ragazza con la pistola. O della disperazione di Alberto Sordi quando, in Un borghese piccolo piccolo, vede morire il figlio a causa di una rapina.
Ha fatto tanti film Mario Monicelli e ha saputo non solo raccontare questa nostra Italia ma ne ha sottolineato i tratti, evidenziato le caratteristiche. Monicelli ha saputo produrre arte di altissimo livello attraverso la trasposizione in vite vissute delle caratteristiche della nostra gente. C’è molta più comprensione dell’Italia in molti suoi film che in tanti trattati sociologici.
Mi piace pensare che Monicelli ha saputo fare questo proprio perché comunista, perché rivoluzionario. Monicelli non era un regista e poi un comunista. Egli ha fuso insieme questi due termini, da un lato assumendo un particolare punto di osservazione del mondo – dal basso – e dall’altro ponendo il problema del trascendimento della realtà qui ed ora, della ribellione. «La speranza, diceva, è una trappola inventata dai padroni. Bisogna avere il coraggio di ribellarsi… e cercare il riscatto che in Italia non c’è mai stato».
Vi è in questa frase una forza enorme; un comunismo non ridotto a pratica religiosa della speranza nel futuro ma, al contrario, il comunismo vissuto come urgenza del cambiamento qui ed ora. Il coraggio di ribellarsi è quella scintilla, quello scarto, che ci parla della possibile costruzione di una soggettività non inscritta nel dominio di quelli che lui giustamente chiamava padroni. L’antipatia per il potere, per l’arroganza, per la sopraffazione, per il cinismo e un interesse vero per tutto ciò che riguardi la dignità umana. Lo stesso senso della dignità umana che l’ha portato probabilmente a togliersi la vita pur di non finire, malato, a dover dipendere da chissà quale meccanismo medico.
Lo vogliamo ricordare così, comunista non pentito, che ci ha accompagnato con i suoi film, ci ha onorati con la sua iscrizione a Rifondazione e con il sostegno nelle campagne elettorali. Grazie Mario, per quello che sei stato e per quello che hai fatto.