Intervista a Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica Economica all’Università di Roma “La Sapienza”
di Roberto Farneti su Liberazione del 18/05/2010
«Continuare a penalizzare la domanda più strutturata, che è quella sostenuta dai redditi, è un modo per riproporre la instabilità del sistema economico. In questo modo le cause della crisi non solo non vengono rimosse, ma ampliate. Il che porta a essere pessimisti sulla possibilità di uscita in maniera progressiva e positiva da questa crisi». E’ molto severo il giudizio di Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, sulle politiche di rigore nei bilanci pubblici richieste dall’Europa ai paesi membri per evitare il ripetersi di casi come quelle della Grecia. Politiche che anche in Italia rischiano di tradursi in tagli alle pensioni e agli stipendi dei lavoratori pubblici, come si evince dalle anticipazioni sulla manovra correttiva da 25 miliardi che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti dovrà presentare nei prossimi giorni.
Professor Pizzuti, ma non ci avevano detto che la crisi era finita?
Il paradosso è che lo si diceva mentre aumentavano i disoccupati e i tassi di crescita stagnavano. Ora la cosiddetta “tragedia greca” ha fatto emergere un nuovo problema, riversandosi sul fronte dell’Euro e sullo stesso progetto di unificazione europea. Si è anche detto che quanto accade è per colpa di politici lassisti, in questo caso greci, che hanno falsificato i conti. Questo modo di presentare le cose è, a mio avviso, un po’ parziale. Una delle motivazioni forti per cui si interviene è perché il debito pubblico greco per oltre la metà è detenuto da banche private, le quali in presenza dell’insolvenza del governo greco andrebbero in contro a seri problemi. Anche stavolta l’obiettivo era evitare l’estensione del default alle banche e al sistema bancario. La novità è che si è chiesto alla banca centrale di derogare dall’ortodossia monetarista, che vieta alle banche centrali di acquistare titoli del debito pubblico per finanziare le spese dei vari governi.
Comunque sia, la questione greca andava affrontata, non si poteva certo far finta che non esistesse.
Il problema è che si continua a far pagare gli stessi. Alla crisi originata nel 2008 da regole che avevano penalizzato i lavoratori, perche le loro dinamiche salariali si sono ridotte, adesso si risponde con strumenti che ancora una volta penalizzano quegli stessi che erano già stati penalizzati. Ed ecco che, per venire all’Italia, il governo prevede la riduzione delle spese ovviamente dove è più facile attingere. A partire dai tagli alle finestre per quanto riguarda le pensioni – basti dire che con il dimezzamento delle finestre di uscita il governo punta a recuperare 1,6 miliardi – per proseguire con gli stipendi dei dipendenti pubblici, che verrebbero sospesi (si parla di congelamento degli scatti). L’altro versante è l’aumento delle entrate nel modo che, dal punto di vista del pensiero dominante, è più indolore, vale a dire con condoni fiscali e immobiliari che, per chi ne beneficia, rappresentano – più che un onere – un premio.
Il ministro Brunetta però minimizza. A suo dire andare in pensione più tardi di qualche mese non è un grande sacrificio, vista la situazione.
Questa più che altro è una sciocchezza. Se a una persona gli dici che va in pensione sei mesi dopo, è vero che risparmi la spesa per quella pensione, ma non risparmi dal punto di vista del costo del lavoro. Un anziano costa più di un giovane ed è meno produttivo. Inoltre ogni prolungamento di lavoratori anziani in attività significa inevitabilmente ridurre il numero dei giovani che possono prenderne il posto. Quindi oltre allo scarso rispetto per le scelte personali di chi, dopo avere lavorato tutta una vita, ha il diritto di godersi il meritato riposo, credo che anche dal punto di vista economico mandare la gente in pensione più tardi non sia un grosso vantaggio, specialmente nel medio-lungo periodo in termini di produttività.
E invece cosa si dovrebbe fare? Chi dovrebbe pagare?
Il problema è che se contemporaneamente non si crea un nuovo meccanismo di crescita che si regge su basi più stabili, sicure e durature, se il Pil non cresce, qualsiasi riaggiustamento è molto più doloroso.
Forse si confida sul fatto che, nel complesso, economia europea e mondiale pare si siano rimesse in marcia.
Una scommessa del genere dovrebbe basarsi su meccanismi che aiutano questa ripresa. Siccome adesso tutti i governi faranno finanziarie che riducono ulteriormente i redditi e la domanda, la teoria economica ci dice che questo contribuirà negativamente alla crescita del Pil. Per cui mi aspetto che nei prossimi mesi Fmi e Ocse rivedano al ribasso le stime di crescita del Pil.
Quindi cosa si dovrebbe fare?
In primo luogo osservo che nel 2009 i bilanci di tutti gli istituti finanziari sono tornati in forte attivo. Vuol dire che esiste un settore dell’economia, che è quello finanziario, che continua a fare profitti essenzialmente sulla speculazione. Probabilmente bisognerebbe colpire un po’ di più quei patrimoni e quelle attività. A questo proposito la Tobin tax può essere utilizzata per ridurre i proventi da speculazione o perlomeno tassarli in modo tale che da quelle speculazioni escano fuori pure finanziamenti per la collettività.