Scalfire i pregidizi, si sa è compito arduo. Talvolta soprende però che questi possano annidarsi a sinistra anche su questioni cruciali per la nostra storia, nelle sedi dei partiti o delle associazioni e soprattutto tra le giovani generazioni. Stiamo parlando della credenza consolidata che la Resistenza sia stata quasi esclusivamente una questione settentrionale. Se è vero che la scena delle azioni partigiane si è svolta soprattutto al Centro-Nord, sulle montagne o nelle grandi città e roccaforti operaie del Paese, non si può dimenticare il grande contributo dato dai Meridionali. Le approfondite tesi di laurea, rispettivamente opera di Giuseppe Caltabiano e Giovanna D’Amico dell’Università di Catania, smentiscono questi pregiudizi, avendo censito, per quanto riguarda il solo Piemonte, 2680 partigiani siciliani.
E tra questi Nunzio Di Francesco, la cui esperienza resistenziale merita di essere ricordata. Siciliano di Linguaglossa, un paesino etneo in provincia di Catania, Nunzio di famiglia contadina, per mantenere gli studi, comincia a lavorare la terra giovanissimo presso un signorotto locale, accorgendosi ben presto dello sfruttamento della povera gente schiavizzata da salari da fame.
A 19 anni, nell’aprile del 1943, il giovane viene chiamato alle armi con destinazione Venaria Reale, in provincia di Torino. A differenza di molti coetanei benestanti, che riescono ad essere esonerati, Nunzio è costretto a fare il soldato, a conferma che le guerre vengono dichiarate dalle classi più ricche ma combattute, per costrizione, dai proletari.
Il momento storico è cruciale per il regime. Già nell’estate dello stesso anno in cui Nunzio va in Piemonte, gli Alleati sbarcano in Sicilia e primi episodi di resistenza ai Tedeschi si registano anche nella provincia da cui proviene il giovane, a Mascalucia e a Castiglione di Sicilia. Episodi quasi sconosciuti che meriterebbero di essere appronfonditi dagli storici.
Tra il 24 e il 25 luglio il regime fascista capitola. Di qui all’armistizio di Cassibile passano pochi giorni e Nunzio, l’8 settembre, si trova a Torino tra i militari allo sbando, senza direttive. Nel giro di poche ore, il giovane siciliano è messo di fronte ad un bivio, deve compiere una scelta che si rivelerà decisiva, capitale per il suo futuro, ma Nunzio non ha dubbi, decide di resistere alla barbarie nazifascista. Un impegno morale che lo porterà, dopo varie traversie, a ritrovarsi sulle montagne piemontesi nelle fila dei partigiani del leggendario comandante “Barbato”, Pompeo Colajanni, siciliano come Nunzio e futuro liberatore di Torino alla testa delle Brigate Garibaldi. Athos, questo il nome di battaglia di Nunzio, partecipa quindi ad una serie di azioni partigiane e durante un’operazione compiuta per nascondere armi, si imbatte in una pattuglia tedesca. Per sfuggire all’inseguimento si getta in un precipizio, sviene e viene aiutato da una ragazza del luogo che lo nasconde in un pagliaio.
Nella notte tra il 5 e il 6 giugno del 1944, in Val Varaita, per attraversare un ghiacciaio, precipita nel buio e viene dato per morto. Salvatosi, ancora una volta in maniera rocambolesca, riesce a raggiungere i compagni, ma in seguito è costretto al ricovero in un convento a causa di una broncopolmonite. La XV Brigata Garibaldi, dopo che si è rimesso in sesto, gli affida il comando di un distaccamento. Athos però, a causa della delazione di un infiltrato fascista, viene catturato nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1944. Interrogato nel carcere delle SS a Saluzzo, viene condotto nelle prigioni di Torino dove, il 10 dicembre, gli viene letta la sentenza di condanna a morte per aver agito alla testa di una banda armata contro la repubblica di Salò.
Viene quindi deportato a Bolzano in un campo di concentramento che gli si para davanti con una scena orrenda, quella di un uomo legato a testa in giù ad un palo e con il viso e le mani annerite dal freddo. Da qui in poi la catena degli orrori si moltiplica in maniera esponenziale. E’ tra i sorteggiati che dovranno pagare con la morte il tentativo di fuga della notte di Natale, ma la punizione reale è un pesante pestaggio e 14 giorni, senza cure, relegato in una cella sotterranea. L’8 gennaio del 1945, viene tirato fuori dalla cella e sorprendentemente ancora in vita, viene inquadrato insieme ad altri 500 prigionieri per partire dalla stazione di Bolzano. Quasi tutti i passeggeri di quel carro-bestiame non torneranno mai più a casa. La destinazione è Mauthausen, ma i prigionieri ancora non lo sanno.
Qui, in questa cittadina austriaca trasformata dal campo di concentramento in inferno dantesco, non sarà più nè Nunzio nè Athos, ma solo un numero, il 115.503. Una matricola che rimarrà indelebile nella sua memoria.
A Mauthausen, il prigioniero incontra Carmelo Salanitro, professore di Latino e Greco nei licei di Catania, deportato per la denuncia del preside di una delle scuole in cui insegna e che troverà la morte nella camera a gas il 24 aprile, ad un passo dalla resa dei nazisti. Un incontro che fa riflettere il giovane reso ancora più triste per la prigionia di un pacifico insegnante cattolico tradito perchè da insegnante educava gli studenti alla pace, alla libertà e contro le guerre.
Nel campo nazista, convivendo con morte, malattia, fame e capricci dei kapò, Nunzio riesce ancora a commuoversi. Negli ultimi giorni del gennaio 1945 a Mauthausen arriva una lunga colonna formata da centinaia di bambini dai 4 ai 12 anni, in maggioranza di origine ebraica. In pochi giorni gran parte di piccoli scompare. I loro corpi sono poi visti ammassati alla rinfusa, pronti per il crematorio.
Una data che non dimenticherà mai è quella del suo ventunesimo compleanno, il 3 febbraio, quando assiste ad una scena tremenda: alcune SS lanciano da un piano sopraelevato i bambini vivi, mentre altre dal basso si esescitano su di loro con la pistola e li infilzano da terra con la baionetta. Dopo qualche giorno verrà trasferito al campo di Gusen II, da dove uscirà finalmente libero ma martoriato nel fisico e nello spirito, il 5 maggio. Tornato in Italia, prima a Milano e poi a Torino, dove è convalescente a causa dei danni subiti, dopo un viaggio lungo tre giorni riesce a tornare in Sicilia, a Linguaglossa dove lo aspettano i suoi cari. E qui, subito, ha la prima amarezza dopo il ritorno in patria. Nunzio, partigiano, combattente per la libertà, deve subire le critiche del parroco e di un gruppo di giovani locali delle classi agiate, con cui aveva condiviso la militanza nell’azione cattolica, preoccupati perchè la lotta partigiana minaccia di far perdere loro i pochi privilegi che ancora conservano. Nunzio si accorge subito dunque che non è la Sicilia che vorrebbe. Gli alleati hanno ricostruito l’amministrazione locale affidandola spesso ad esponenti della mafia e a vecchi funzionari fascisti ed inoltre avvalendosi delle collaborazione dei grandi proprietari terrieri per impedire lo sviluppo del sistema democratico.
Il giovane partigiano deve fare i conti anche con l’ottusità della burocrazia. Nonostante gli attestati del Cln, gli viene negata la pensione di guerra, mentre i reduci fascisti ottengono pensioni, riconoscimenti ed impieghi negli enti pubblici.
Ma Nunzio non si piega a queste contrarietà ed un certo tipo di mentalità che tutto tende a zittire e a offuscare e nel dopoguerra continua la battaglia per la libertà su posizioni socialiste, partecipando in prima persona alle lotte sindacali in difesa dei contadini siciliani.
Oggi, anche grazie al suo libro “Il costo della Libertà”, moltiplica l’impegno di testimonianza e monito contro la barbarie nazifascista e può essere considerato quindi un ambasciatore della lotta partigiana nei tempi moderni, sempre presente in dibattiti, conferenze, tra le giovani generazioni, nelle scuole, alle manifestazioni sulla Resistenza e prezioso consigliere per tesisti e dottori di ricerca.
Davide Pappalardo
articolo pubblicato sulla rivista Il Calendario del Popolo del febbraio 2008