Per Gabriele

Le amiche e gli amici, le compagne e i compagni che hanno avuto il privilegio di condividerne tratti di strada

Nel ricordare pubblicamente la persona e la figura di Gabriele Centineo noi, compagni e amici di una vita, non possiamo ricorrere alla retorica e al trionfalismo. Sarebbe una offesa per lui, e anche per noi stessi. Gabriele lo abbiamo conosciuto bene, e sappiamo che, se poche persone sono necessarie, lui era ed è, fuori di ogni esagerazione, insostituibile; anche con gli errori che inevitabilmente ha commesso, come avviene per chiunque molto faccia, per chiunque si spenda fino in fondo. La sua perdita, umana e politica, non è redimibile, come non è redimibile la perdita di nessuno. Non possiamo consolarci con il virtuismo di fronte alla morte, non possiamo rimuoverne il peso con consolatori slogan del tipo: “Gabriele è vivo e lotta insieme a noi”. Ogni perdita è sempre totale e definitiva, lo scacco e la finitudine umana sono strettamente intrecciati. Ogni consolazione è rimozione; Lazzaro non risorge.
Eppure è vero anche il contrario: Gabriele è vivo in noi, Lazzaro non risorge perché, forse, non è mai morto del tutto. Ogni atto che noi, amici e compagni di una vita, compiremo, porterà con sé un frammento, un ricordo di Gabriele. La sua persona è certo insostituibile, ma egli sarà rivissuto nella nostra vita, in quello che trasmetteremo ai più giovani. Nulla mai si disperde del tutto.
La sfera pubblica e quella privata sono sempre strettamente connesse. In Gabriele questo nesso era più forte che in tanti altri. La sua radicalità, la sua ostinazione, la sua intransigenza, la sua straordinaria capacità di leggere nel dettaglio la totalità, erano le stesse nella lotta politica, nello sguardo sul sociale, nello scavo culturale, nel rifiuto, talvolta irragionevole, dell’esitazione e del dubbio, così come nel gusto del buon cibo, nella rumorosa, allegra e burbera convivialità, nell’irrinunciabile, incomprimibile e folle dipendenza dalle sigarette; nel brusco spostarsi dalla condivisione alla riservatezza, gesto tipico del pensatore e del rivoluzionario radicale. Quanti di noi, e quante volte, sono stati colpiti dalla rapidità con cui coglieva un carattere da un volto o da un dettaglio, dall’anticipazione del giudizio, dalla conoscenza di un libro prima ancora che lo specialista di turno ne sapesse qualcosa! Tutta centrata sull’intelletto, la sua è stata in realtà una vita di passioni e di azioni. Figura totalmente politica, in apparenza, egli rivelava, a chi lo conoscesse appena un po’, le contraddizioni di ogni essere umano, lo spessore problematico dell’intellettuale, spessore che egli rifiutava di mettere in luce se non con battute, frasi smozzicate, grugniti, sbuffi, giudizi sommari e perentori, irritabilità, intolleranza. La sua radicalità (il suo saper cogliere le cose alla radice, come scriveva Marx) e il suo apparente settarismo erano in realtà la prima fase di una grande pazienza (la pazienza del rivoluzionario e del santo), di una grande capacità e volontà di mediazione, di una grande e lucida ironia, così come di una decisa opzione per lo spendersi fino in fondo: e anche lo spendere senza criterio era in fondo un darsi, un consumarsi. Dove finiva, in questi tratti, la dimensione del privato, dove aveva inizio quella del pubblico? Dove il Gran Signore sfociava nel comunista, o viceversa? Dove la camicia spiegazzata, i pantaloni fuori misura, il sedersi, incredibile, sulle proprie gambe incrociate, in una sorta di posizione Yoga, il percorrere nervosamente tutte le sale di riunione fra una sigaretta e l’altra, nell’analisi acuta dei processi sociali, delle miserie di molto riformismo di facciata?  Proprio in questo nucleo enigmatico è stata la sua ricchezza e la sua unicità.
Del resto anche l’aspetto suo più “politico” reca le tracce di una formazione complessa, che nasce nella sinistra socialista, oltre che di un grande spessore culturale. Da qui la sua lotta allo stalinismo, a partire dagli anni Cinquanta (quando, ragazzo, diede inizio alla sua “carriera” manifestando contro l’invasione dell’Ungheria) non solo a quello palese, ma anche a quello inscritto inconsapevolmente negli atti e nei gesti del ceto politico, detestato da lui molto più radicalmente degli anemici e opportunisti odiatori della “casta”. Da qui, ad esempio, la sua adesione ai movimenti per il disarmo e la pace negli anni Ottanta, quando ascoltava con attenta impazienza i discorsi di molti soggetti in essa impegnati, seppur lontani dalle sue posizioni: segno di una vocazione culturale che si manifestava, fra l’altro, nella partecipazione alla rivista “Città d’Utopia” e alle iniziative del Centro “Pennino Impastato. Dalla lunga lotta contro il potere mafioso, per lui segnato dallo scellerato “patto fra produttori”, fra imprenditoria e sindacato, fino alla estenuante ed esaltante campagna referendaria in difesa della Costituzione, Gabriele non si è risparmiato e non ha risparmiato critiche e proposte, indicando un nuovo percorso politico, dal basso, per una democrazia reale. Bisognerà, in un futuro prossimo, indagare di più questa sua dimensione, anche per dargli lo spazio e il rango intellettuale che merita, non solo a Catania, ma in Italia. La sua interminabile e inarrestabile attività politica e sindacale ha infatti lasciato poche tracce registrabili. Ma se si sommassero i suoi interventi scritti (i numerosissimi documenti politici, i brevi pamphlet, i volantini che stendeva) con i suoi innumerevoli interventi pubblici, la sua produzione e la sua incidenza politica e culturale risulterebbe straordinariamente vasta e profonda. Chiara per noi che lo abbiamo avuto al fianco, anzi sempre un po’ davanti, la sua personalità rischia di svanire in fretta, per questo, nel barbaro futuro che già incombe. Si è bruciato fino all’osso anche in questo, Gabriele: nel non aver voluto, di sé, lasciar quasi traccia da seguire. Dai suoi primi gesti d’impegno negli anni giovanili al percorso politico nella sinistra socialista, nel PSIUP, nel PdUP, in Democrazia Proletaria, in Rifondazione comunista, nel sindacato, la CGIL, la sua è stata una vita coerente nel percorso critico, nello sguardo volto alla radice dei processi sociali, nel rifiuto (che è anche una rimozione, e dunque un errore) dell’irrazionale e dell’irragionevole che guidano, lo sapeva anche lui, le azioni umane, quelle dei singoli e quelle dei collettivi. Aveva fatto suo, e lo dichiarava a voce ai più vicini, il motto di Franco Fortini presente in un articolo dei “Quaderni rossi” dell’amato Panzieri: il socialismo non è inevitabile; e l’altro: il combattimento per il comunismo è il comunismo. La rivoluzione è irrinunciabile, ma non conduce a nessun paradiso in terra. Essa è un assedio che va condotto anche su se stessi, ossia sulle nostre azioni collettive, sui nostri stessi obbiettivi. Perché il comunismo non è un opzione-culturale, né siamo osservatori – partecipi della storia, ma come lui, siamo militanti del movimento operaio, siamo qui consapevoli che Gabriele ha consegnato a noi tutte e tutti un testimone difficile da raccogliere e che tuttavia è necessario raccogliere.

Per Gabriele

Le amiche e gli amici, le compagne e i compagni che hanno avuto il privilegio di condividerne tratti di strada

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