di Virginia De Cesare * e Simone Oggionni ** su Aprile online del 11/12/2009
Nell’ottobre dello scorso anno prendevano corpo le prime assemblee che avrebbero inaugurato un movimento straordinario: dalle aule delle Università alle scuole superiori, sino a quelle delle medie e delle elementari, si sollevava univoco un grido di esasperazione e di rabbia di centinaia di migliaia di studenti e di docenti, di lavoratori precari della conoscenza. In quei giorni l’Onda scendeva in piazza con la consapevolezza che stava prendendo forma una svolta decisiva nella storia della Repubblica italiana: si stava concretizzando l’ultimo decisivo tassello nel mosaico dell’ormai decennale processo di distruzione del diritto allo studio e del carattere pubblico dell’istruzione.
La recente legge 133 rappresenta null’altro che una fetta di ricchezza sociale, culturale ed economica dirottata dal bene comune verso le banche e le imprese.
Ad un anno dall’avvio di quello straordinario movimento, non solo il governo ha dimostrato di ignorare – mettendo in campo tutta la sua arroganza – le richieste di quei soggetti in carne ed ossa che scuola e Università pubbliche le vivono quotidianamente, ma ha anche dimostrato di saper essere estremamente puntuale nel perseguire il proprio disegno classista e anti-costituzionale. La nuova riforma della Governance universitaria muove speditamente nella direzione della privatizzazione e aziendalizzazione degli atenei, come dimostra l’apertura (e il conseguente presumibile asservimento) ai rappresentanti delle imprese dei consigli d’amministrazione degli atenei.
Con quale efficacia? Basta guardare l’entità dei tagli: 1500 milioni di euro in cinque anni. E le conseguenze che ciò produce, insieme ad una logica perversa e preoccupante di semplificazione della cultura: in una delle più grandi Università italiane, La Sapienza di Roma, il Rettore ha dichiarato di non potere erogare gli stipendi per gli ultimi mesi del 2010 e, contemporaneamente, ha previsto il dimezzamento del numero delle facoltà e la riduzione del 60% dei dipartimenti.
Il bivio che scinderà definitivamente le Università di eccellenza da quelle di seconda fascia è quindi tanto vicino da investire oggi stesso le sorti di un’intera generazione.
La maschera ideologica utilizzata per nascondere questo processo di privatizzazione è quella del cosiddetto «merito». Pensiamo che la retorica sul «merito» abbia evaso le catene del buon senso. Qualunque buon liberale riconosce come base imprescindibile del concetto stesso di meritocrazia il livellamento delle condizioni di partenza, l’eliminazione delle disparità economiche e sociali che dividono tra loro gli studenti sin dall’inizio del percorso scolastico. Al contrario, il governo procede alla destrutturazione del sistema pubblico di diritto allo studio, sostituendolo con «prestiti di onore» tramite i quali il sostegno economico legato alla condizione sociale viene scalzatoo dal meccanismo dell’indebitamento collettivo (con scarso senso del ridicolo, in una fase di crisi successiva allo scoppio del sistema dell’indebitamento).
Per tutti questi motivi diventa centrale riaprire la lotta per l’accesso e per la qualità dell’istruzione pubblica a tutti i livelli, dalla scuola dell’obbligo all’Università, per l’abbattimento delle forme di blocco, di selezione e di segmentazione dei percorsi formativi.
Lo sciopero convocato dalla Flc-Cgil assume in questo senso un’importanza decisiva: i diversi soggetti della formazione si ricompongono intorno ad una piattaforma avanzata, che contesta i tagli ai fondi per l’istruzione pubblica, quelli al personale docente e tecnico amministrativo; e che si oppone all’espulsione dei precari di lungo corso, ignobilmente messi alla porta dopo anni di fatiche e di sacrifici.
È forse per questo motivo – per la sua oggettiva importanza, per il suo costituire oggi un tassello determinante nella lotta politica contro il governo delle destre – che la Questura di Roma ha negato l’autorizzazione al corteo unitario del movimento convocato dagli studenti e dai lavoratori della Sapienza.
È anche contro questa cultura reazionaria e antidemocratica che noi siamo in piazza, rivendicando innanzitutto il nostro diritto di manifestare. C’è una generazione, la nostra, che non ha più nulla da perdere, se non la precarietà che le è stata imposta. Siamo parte di questa generazione umiliata e derubata del proprio futuro. Ma che ha tanta voglia di riprendersi i propri sogni e di tornare a lottare.
* Giovani Comuniste/i Roma
** Comitato di gestione nazionale Giovani Comuniste/i