Relazione al CPN 2-3 luglio 2016 di Paolo Ferrero – segretario nazionale PRC
Cari compagni e compagne, questa relazione – che per ragioni di tempo è stata messa per scritto solo durante le vacanze estive – si divide in due parti.
Nella prima parte affronterò alcuni elementi dell’attualità politica (al 2 luglio 2016) e nella seconda avanzerò una proposta dell’asse politico su cui tenere il prossimo congresso.
ATTUALITA’ POLITICA AL 2 LUGLIO 2016:
Nelle ultime settimane abbiamo avuto alcuni significativi elementi politici che riguardano il nostro progetto politico.
In primo luogo la CGIL ha raccolto le firme per fare i referendum sulle questione del lavoro. Si tratta di un risultato importante che garantisce il fatto che nel prossimo anno – se non vi saranno elezioni – vi sarà una tornata referendaria che riguarderà le questioni di classe e contribuirà a modificare positivamente un quadro politico che discute di tutto salvo che delle questioni rilevanti della situazione sociale. Non sappiamo ancora se le firme raccolte sulla scuola sono sufficienti ma vi sono buone possibilità che – magari allungando un po’ il periodo di raccolta- si riesca a centrare l’obiettivo anche qu questi referendum. Diverso è il discorso sul referendum sulla legge elettorale dove una gestione “illuminista” della campagna referendaria non ha mai posto le basi per una efficace raccolta firme. Mi permetto questo giudizio perché dopo solo due settimane di raccolta firme abbiamo chiesto e fatto una riunione con i rappresentanti del comitato per il no proponendo un deciso cambio di passo nella modalità di fare la campagna referendaria: il nostro appello è rimasto inascoltato e questi ne sono gli effetti. Dobbiamo quindi impostare la campagna per il NO nel referendum sulla costituzione facendo una campagna specifica del partito nell’ambito della campagna generale e puntando fortemente sull’intreccio tra questione democratica e questione sociale. La campagna per il NO nel referendum sulla manomissione Costituzionale deve essere il nostro principale impegno politico dell’autunno perché quel referendum è decisivo per gli assetti democratici e sociali del paese e dobbiamo vincerla.
In secondo luogo la campagna contro il TTIP condotta in tutta Europa se negli USA sta cominciando ad ottenere significativi risultati. Negli USA la forza della campagna ha portato tutti i candidati alla presidenza USA a pronunciarsi negativamente sul TTIP. In Francia, Olanda, Belgio e Austria, la campagna ha cominciato ad incidere anche sugli orientamenti dei governi ed in particolare il governo Francese – che ha grandi problemi di consenso relativi al JOBS ACT – e cerca di recuperare posizioni dando un giudizio sostanzialmente negativo riguardo al TTIP. La battaglia ovviamente non è finita e compito nostro è radicalizzarla in Italia dove il governo – che ha appaltato la gestione della vicenda direttamente alla Confindustria attraverso il ministro Calenda – ha probabilmente la posizione peggiore tra tutti i governi europei.
In terzo luogo stiamo assistendo ad un grande movimento di lotta in Francia contro il JOBS ACT. Si tratta di un fatto rilevantissimo per la soggettività che mette in campo ma che se rimane isolato difficilmente potrà vincere. Voglio soffermarmi su questo elemento perché è centrale. Il padronato globalizzato attacca i lavoratori un paese per volta e il cedimento in un paese diventa il punto di forza da cui attaccare il movimento operaio di un altro paese. Mentre i padroni si coordinano e puntano alla divisione attaccando uno per volta, il movimento operaio, paese per paese è destinato a perdere. I padroni hanno sempre puntato alla divisione del proletariato e adesso lo fanno su scala europea e globale. La Francia ci rimanda quindi ad un problema generale e strategico: se il movimento operaio e la sinistra non riescono a costruire elementi di connessione tra le lotte nei diversi paesi sono destinati a soccombere, uno per volta. Vale per i movimenti di lotta come per i governi che cercano di fare una politica che fuoriesca dalla gabbia neoliberista dell’austerità. Un anno fa l’Unione Europea e la BCE hanno aggredito il governo greco di Tsipras e adesso vuole imporre le sanzioni al governo Portoghese che ha disobbedito ai trattati, così come punta a sconfiggere il movimento di lotta dei lavoratori francesi. I comunisti, invece di mettersi a dare i voti ai governi o alle lotte degli altri paesi, dovrebbero porsi il problema di come si costruisce una connessione, una sincronia e una comune coscienza tra i movimenti dei diversi paesi. Questo a me pare il problema fondamentale e livello europeo: come si supera la divisione e si costruisce una forza tale da sconfiggere l’avversario di classe sul suo stesso terreno, quello europeo. Proprio in questa direzione ho chiesto all’ultima riunione dei presidenti del Partito della Sinistra Europea una decisa ristrutturazione del modo di funzionare del partito europeo.
In quarto luogo abbiamo avuto le elezioni spagnole in cui le aspettative di sorpasso del partito socialista da parte di Unidos Podemos hanno generato un certo grado di frustrazione. Voglio dire con chiarezza che considero il risultato di oltre il 20% della lista di sinistra un risultato straordinario, che apre la strada ad un deciso avanzamento in Spagna. La condizione è che Izquierda Unida e Podemos non si mettano a litigare tra di loro e al loro interno distruggendo quanto sin qui costruito. In altre parole il risultato spagnolo, se preso per il verso giusto, è un ottimo risultato che apre grandi prospettive in rapporto con gli avanzamenti avuti in Grecia e Portogallo e con le lotte francesi.
In quinto luogo abbiamo avuto le votazioni sul referendum in Gran Bretagna con la vittoria della Brexit. E’ indubbio che questo risultato evidenzia in primo luogo il fallimento dell’Unione Europea. Detto questo eviterei di assumere una prospettiva unilaterale nell’analisi del voto. E’ evidente l’egemonia delle componenti di destra che hanno spinto per la Brexit – riassumibile nella prospettiva di bloccare la libera circolazione delle persone garantendo al massimo la libera circolazione delle merci e dei capitali – ma il voto per l’uscita della UE non può essere schiacciato unicamente su questa opzione di destra liberista. Così come gli effetti della Brexit non possono essere analizzati a distanza di pochi giorni. Non solo perché le forze che hanno vinto tendono ad annacquare moltissimo gli effetti di quella scelta e a scappare di fronte alle palesi menzogne raccontate in campagna elettorale per motivare il “Leave” ma perché il complesso delle forze in campo sta ancora posizionandosi e gli effetti duraturi si vedranno solo nel medio periodo. Non è nemmeno possibile dire che questo voto frutto del fallimento della UE determinerà una sconfitta della UE perché è anche possibile che ne determini un suo rafforzamento. Il problema è come noi ci rapportiamo alla Brexit e agli interrogativi che questa ha sollevato a livello di massa. Io penso che il nodo fondamentale sia di sostenere che quel voto è l’effetto del fallimento della UE e che questa deve essere rivoltata come un calzino, abbandonando immediatamente le politiche di austerità e uscendo dal neoliberismo con politiche di piena occupazione e di redistribuzione del reddito. Noi dobbiamo quindi partire dalla Brexit per fare una campagna di massa per modificare radicalmente le politiche di questa Europa.
Questa campagna si deve articolare attorno alla parola d’ordine “I SOLDI CI SONO”. Il contesto è caratterizzato dal refrein “non ci sono i soldi” che viene declinato in Europa come in Italia da tutti i principali soggetti politici: Renzi dice che i soldi non ci sono perché “gli anziani hanno mangiato il futuro ai giovani”, Salvini dice che i soldi non ci sono perché ”li prendono zingari e immigrati” e Grillo dice che i soldi non ci sono perché “se li sono mangiati i politici”. Noi dobbiamo ribaltare questo paradigma che porta inevitabilmente alla guerra tra i poveri e dire con chiarezza che non c’è nessuna scarsità ma invece c’è una ricchezza mal distribuita e che i soldi ci sono e vanno presi da chi li ha: con la tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze, facendo un Quntitative Easing per i popoli, abolendo le grandi opere inutili e dannose.
Da ultimo ma non meno importante abbiamo avuto le elezioni amministrative in Italia. Queste elezioni mi paiono caratterizzate da cinque elementi.
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Un drastico abbassamento del numero dei votanti (con l’unica eccezione di Roma). Vi è quindi una crisi del sistema politico che non è scalfita dalla presenza e dal successo del movimento 5 stelle che si caratterizza più per un travaso di voti all’interno del mondo che va a votare che non per una attivazione di nuove forze popolari. La delegittimazione del sistema politico che determina una vera e propria crisi della democrazia, dovuta in primo luogo alle politiche neoliberiste e al sistema elettorale bipolare, prosegue quindi senza controtendenze.
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La sonora sconfitta del PD di Renzi. Questa sconfitta va del tutto al di là del voto amministrativo e si configura come una volontà della maggioranza della popolazione di punire il PD e il suo leader Renzi. Da questo punto di vista occorre guardare alla positiva sconfitta del PD in una prospettiva storica: la piena vittoria del capitale sul piano sociale e ideologico ha difficoltà a sedimentarsi sul piano politico. Da Berlusconi a Monti a Renzi, passando per tutti gli altri, ogni ipotesi di governo che nel momento in cui vince pare inossidabile, nel giro di pochissimo tempo tende a perdere smalto e credibilità. Vi è una precisa ragione strutturale di questa sequenza: il capitalismo neoliberista determina un peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni e coloro che si presentano come uomini della provvidenza debbono incorporare nella loro narrazione una tale quantità di falsa coscienza (bugie) che nel giro di poco tempo la verità viene a galla mentre cola a picco la fiducia e la popolarità. Non a caso il tentativo del capitale è stato quello di costruire un sistema bipolare che garantisse un interscambio tra simili, in modo che non possa mai farsi strada la possibilità dell’alternativa. Anche questa strada è però in Italia assai problematica a causa della crisi del bipolarismo e questo ci consegna un nodo rilevante: il terreno della stabilizzazione politica del neoliberismo è in Italia – e non solo – assai problematico. Il terreno politico è quindi un anello debole della catena di comando, un anello non marginale su cui i comunisti debbono avere una proposta politica efficace, in modo da poter aggredire il neoliberismo anche su questo terreno.
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Il M5S è stato lo strumento utilizzato dagli elettori per punire il PD. Il voto al M5S si caratterizza sempre più come un parcheggio – assai meno connotato politicamente del PD o del PDL – pienamente in sintonia con il senso comune diffuso e quindi utilizzabile per fluidificare il sistema politico. Penso che proprio in virtù del fallimento delle politiche neoliberiste, del fatto che il M5S non ha mai avuto responsabilità di governo e della sua sintonia con il senso comune – assai degradato – del paese, il M5S sia destinato a cogliere significati successi elettorali. Io penso che sia un fatto iscritto nell’ordine delle cose e per certi versi positivo. Personalmente ho votato M5S nel ballottaggio nella mia città sia contro il PD ma anche contro il M5S: solo se governano la gente capirà che non fanno i miracoli, che non basta essere onesti per uscire dalla crisi e quindi si riaprirà la possibilità di una maturazione sociale sulle origini strutturali della crisi e sulla necessità di superare il neoliberismo.
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A destra penso che paradossalmente il vincitore sia Berlusconi: Salvini si era presentato come il futuro leader del centro destra mentre ha dimostrato che da solo non è in grado di vincere. Il dato che emerge dalle urne è che solo il centro destra unito a trazione “moderata” è in grado di competere con gli altri due poli oggi in campo. Mi pare quindi che le elezioni rilanceranno processi di riaggregazione della destra, in cui la Lega farà pesare la sua impostazione ma sarà impossibilitata ad assumere la leadership.
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A sinistra siamo riusciti a fare numerose liste di sinistra autonome dal PD. Si tratta di un dato positivo che in alcune situazioni – penso alla situazione napoletana ma non solo – nel rapporto con altre forze a trazione civica, hanno ottenuto significativi risultati. Parallelamente, è del tutto evidente che essere andati alle elezioni senza alcun progetto nazionale condiviso e visibile non ha certo facilitato la raccolta dei consensi in una situazione in cui il voto è stato fortemente caratterizzato da una dinamica nazionale. Mentre i tre grandi poli erano riconoscibilissimi, le liste unitarie della sinistra che meritoriamente abbiamo concorso a costruire, dopo il fallimento del tavolo nazionale unitario dell’autunno scorso, erano esperimenti locali senza che fosse visibile un progetto nazionale: il risultato del voto di tenuta ma non di espansione ne è la controprova. Il nodo politico che abbiamo dinnanzi è quindi la costruzione di un progetto unitario nazionale. Preso atto del fallimento del tavolo nazionale a causa del settarismo e delle ambiguità politiche di SEL, dobbiamo operare in tale direzione a partire da un protagonismo dalle liste unitarie presentatesi in queste elezioni e dal positivo ruolo che possono giocare i sindaci del nostro schieramento che hanno vinto. Il progetto unitario non finisce quindi per la scelta miope di Sinistra Italiana ma deve essere rilanciato a partire dalle esperienze concrete sui territori. In questa situazione è opportuno sottolineare la positiva partecipazione di Rifondazione Comunista alle liste unitarie in tutto il paese, da Sud a Nord, segno che la linea politica che ci siamo dati corrisponde ad un sentire comune del partito e ad una necessità concreta dei territori. Non si tratta solo di un fatto amministrativo ma dell’aprirsi di un processo politico di cui il nostro partito è protagonista. In questo quadro positivo risaltano negativamente alcune situazioni – a partire da Bologna – in cui il settarismo dei gruppi dirigenti locali del partito ha determinato l’annullamento di rifondazione comunista nella tornata elettorale: non solo rifondazione non ha partecipato alle liste unitarie ma non ha nemmeno presentato liste proprie, scomparendo completamente nella tornata elettorale. Si tratta di errori politici gravi – anche se circoscritti territorialmente – che dobbiamo affrontare allargando il consenso attorno alla linea politica che ci siamo dati, al fine di riportare rifondazione al centro dello scontro politico e facendo passi in avanti nella costruzione di una sinistra antiliberista unitaria.
RELAZIONE SVOLTA AL CPN PER LA PARTE RELATIVA ALLA PROPOSTA CONGRESSUALE.
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Quello che ci apprestiamo a fare è il X congresso nazionale del Partito della Rifondazione Comunista. La prima considerazione da cui partire è che il Congresso si tiene perché il Partito c’è. E’ quindi evidente che la Campagna fatta contro il gruppo dirigente nazionale, affermando che intendeva sciogliere il partito, era una campagna demagogica e priva di ogni fondamento. Quando nel corso delle discussioni relative alla costruzione di un soggetto unitario è stata avanzata dai alcuni nostri interlocutori la richiesta di scioglimento del PRC, questa proposta è stata rispedita al mittente. Il Partito c’è perché l’indirizzo politico stabilito nel congresso di Perugia e ribadito nella consultazione tenutasi nel mese di novembre scorso, è stato seguito del partito a tutti i livelli.
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La discussione che vogliamo fare in questo congresso non riguarda quindi l’esistenza di Rifondazione Comunista che non è e non è mai stata in discussione ma riguarda i modi, le forme e i percorsi per rafforzare Rifondazione Comunista e il suo progetto politico.
Il nostro partito – in un contesto generale di indebolimento o di trasformazione in senso presidenzialista del complesso dei partiti politici – è oggi più debole ma è stata posta in essere in questi anni una azione di consolidamento della struttura che ci permette di ragionare senza avere l’acqua alla gola. Inoltre il lavoro e la determinazione messa in campo sul terreno della costruzione unitaria della sinistra ci consegna una positiva interlocuzione esterna che rompe quell’isolamento che abbiamo subito per lunghi anni. Oggi non siamo certo gli unici a porre il tema della costruzione di una sinistra di alternativa automa ed alternativa al PD e la stessa partecipazione al complesso delle liste unitarie di sinistra nell’ultima tornata elettorale amministrativa parla di questa situazione. Entrambi questi elementi, l’azione di consolidamento economico e l’azione unitaria costituiscono elementi decisivi su cui fondare un possibile e necessario passo in avanti. Gli stessi risultati nelle sottoscrizioni del 2 per mille parlano di questa situazione.
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Il punto che vi proponiamo di mettere al centro della discussione di questo Decimo congresso riguarda la definizione della proposta politica della rifondazione comunista oggi e quindi la ragion d’essere del Partito della Rifondazione Comunista. A 25 anni dalla nascita di Rifondazione Comunista sentiamo la necessità di questa ridefinizione. Anche perché, nelle discussioni di questi anni – sovente concentrate sui singoli passaggi tattici – a volte si è rischiato di perdere il senso profondo della proposta comunista di cui siamo portatori. Lo si è visto nelle varie scissioni subite nel corso del tempo e negli stessi abbandoni che abbiamo subito in questi ultimi mesi, in particolare nel gruppo dirigente. Il congresso deve quindi concentrarsi sulle ragioni di fondo della proposta comunista e sul senso dell’esistenza, sul compito storico del Partito della Rifondazione Comunista per l’oggi e per il domani. Si tratta quindi di fare un congresso di definizione strategica che ci permetta di rilanciare la nostra proposta politica evitando che la discussione su ogni singolo passaggio tenda ad assumere toni ultimativi e francamente fuori luogo.
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Il PRC nel corso della sua esistenza ha posto in essere un’azione di innovazione e di vera e propria rifondazione rispetto al percorso del movimento comunista fino al 1989. Il nascente Movimento per la rifondazione comunista aveva posto il tema della critica radicale delle esperienze del socialismo reale e – nella rivendicazione della diversità del percorso comunista italiano – i limiti e gli errori emersi in Italia a partire dalla stagione del Compromesso storico. Nel corso degli anni abbiamo implementato questa riflessione in modo significativo: dalla scelta netta dell’antistalinismo alla consapevolezza della necessità di superare non solo il capitalismo ma anche il patriarcato, alla scelta. Dalla chiarezza della centralità della questione ambientale nel superamento di ogni economicismo alla centralità della battaglia per la pace in una prospettiva non violenta fino alla consapevolezza di un diverso rapporto da costruire tra partito e movimenti.
Si tratta di acquisizioni importanti che – accanto ad alcuni errori come l’idea dell’inattualità del concetto di imperialismo – ci hanno permesso di collocare il Partito della Rifondazione Comunista sul terreno dell’innovazione senza smarrire le proprie radici nonostante le scissioni e la spinta all’omologazione che nasce dal bipolarismo. Si tratta in larga parte di un’opera di rifondazione comunista che ha fatto i conti con gli errori del passato, cercando di acquisire la lezione della storia. Abbiamo fatto un’azione di discernimento all’interno della storia del movimento comunista e abbiamo detto cosa ritenevamo sbagliato e abbiamo provato a definire elementi di cultura politica adeguati al tema della trasformazione sociale radicale, della lotta per il socialismo.
Il punto fondamentale è che il lavoro di elaborazione concentrato principalmente sul terreno del passato è insufficiente al fine di produrre un progetto politico all’altezza della situazione e in fondo non ha quindi dato luogo ad un vero processo di rifondazione comunista: questo rimane un obiettivo da realizzare e non una condizione acquisita.
La globalizzazione neoliberista e la sua crisi ci parlano di una nuova fase dell’accumulazione che ha letteralmente cambiato il mondo in questi ultimi 25 anni.
Il tema che ci proponiamo di affrontare, a partire dal pieno utilizzo del metodo e delle acquisizioni di Marx e del marxismo, è quindi la rifondazione comunista intesa come definizione della proposta comunista nella fase attuale. Il nostro obiettivo è quello di dar vita ad un effettivo processo di rifondazione comunista che sia in grado di porre credibilmente l’obiettivo del socialismo nei paesi a capitalismo avanzato, del socialismo del XXI secolo. Riteniamo che senza questo passaggio decisivo non vi possa essere alcuna rifondazione comunista.
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Il punto fondamentale di questo capitalismo è dato dall’abbondanza e dall’incapacità del capitalismo stesso di mediare positivamente la ricchezza potenziale ed effettiva che esso stesso ha concorso a creare. La crisi attuale non ha nulla a che vedere con la scarsità ma piuttosto con una finanziarizzazione del capitale e ad una sovrapproduzione strutturale dovuta in parte alla cattiva distribuzione della ricchezza e del lavoro e in parte all’impossibilità del capitale di riprodurre il rapporto di valore in un contesto di relativa abbondanza.
Mentre le rivoluzioni e i tentativi di transizione al socialismo avvenuti nel corso del XX secolo si dovevano misurare drammaticamente con la scarsità e la penuria, noi siamo oggi chiamati a ridefinire la proposta comunista e a declinare il tema della transizione in un contesto di relativa abbondanza, in un contesto in cui per la prima volta nella storia dell’umanità, lo sviluppo delle forze produttive permetterebbe la fuoriuscita dalla necessità economica come problema fondamentale dell’umanità.
Il nodo che abbiamo dinnanzi riguarda quindi complessivamente la ridefinizione del progetto comunista in un contesto in cui il capitalismo ha esaurito la sua spinta propulsiva perché non è in grado di mediare positivamente le stesse forze produttive che ha messo in movimento. Il tema dell’alternativa tra socialismo o barbarie nasce qui, in questa crisi strutturale del capitale che taluni declinano nei termini della “stagnazione secolare” e che vede nelle politiche neoliberiste e di austerità il tentativo di salvaguardare e rafforzare un potere di classe che non ha più legittimazione sociale: non è in grado di garantire il benessere reso possibile dallo sviluppo delle forze produttive, distrugge l’ambiente e quindi le condizioni di riproduzione dell’umanità, produce guerre, impoverimenti ed emarginazioni enormi, migrazioni e razzismo.
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Se i tentativi di transizione al socialismo avvenuti nel corso del ‘900 erano quindi caratterizzati dal tema della penuria e sovente i governi rivoluzionari hanno avuto al centro della propria azione proprio il tema dello sviluppo economico, oggi dobbiamo porci il problema della transizione al socialismo in un contesto in cui il capitale ha pienamente sviluppato se stesso e quindi in un contesto radicalmente diverso. L’ideologia dominante vuole confinare il comunismo nella fase iniziale del capitalismo, una sorta di parentesi relativa agli eccessi di un capitalismo non ancora pienamente sviluppato. Noi al contrario riteniamo che proprio lo sviluppo capitalistico ponga in modo maturo le condizioni per una transizione al socialismo nei termini in cui parlava Marx.
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Questa globalizzazione neoliberista ha modificato completamente i termini del conflitto di classe. Nel ciclo di accumulazione successivo alla seconda guerra mondiale, che coincide con il periodo di vigenza di Bretton Woods, in un contesto di politiche keynesiane relativamente generalizzate, abbiamo avuto processi di accumulazione che hanno avuto una dinamica principalmente nazionale sia per quanto riguarda i mercati che le produzioni. Su questa base, in un contesto di crescita economica, il movimento operaio nei paesi occidentali è stato generalmente in grado di operare positivamente sia sul piano politico che sindacale. Sul piano politico con l’obiettivo della programmazione democratica dell’intervento pubblico in economia e dello sviluppo del welfare, sul piano sindacale con l’obiettivo di redistribuire reddito, di ridurre l’orario di lavoro fino ad arrivare nei casi più avanzati a mettere in discussione l’organizzazione capitalistica del lavoro e a praticare forme avanzate di controllo operaio. Entrambi questi interventi del movimento operaio avevano il loro punto di forza nella capacità di esercitare un potere rilevante su base nazionale agendo sia sul parlamento che attraverso la mobilitazione sociale e la stipula di contratti di lavoro nazionali. Il punto fondamentale è che i processi di globalizzazione hanno progressivamente modificato questa situazione, in un processo che ha caratteristiche di attacco politico, di modifica istituzionale e di modifiche strutturali della produzione e dei mercati: il livello nazionale ha progressivamente perso larga parte della sua cogenza sui processi di accumulazione. Questo processo – di cui sottolineo l’intreccio di attacco politico e di internazionalizzazione dei processi di produzione e di accumulazione capitalistici – ha determinato le base materiale su cui si è ridotto il potere esercitabile sia a livello parlamentare che a livello sindacale su base nazionale. Questo processo è stato assai facilitato dagli errori delle dirigenze politiche e sindacali del movimento operaio ma ha determinato esiti strutturali che hanno radicalmente cambiato la situazione. Mentre nel ciclo di accumulazione del dopoguerra le forme democratiche costruite sul piano politico e sindacale erano nelle condizioni di esercitare un significativo potere di interdizione e anche di comando sui meccanismi dell’accumulazione, questo potere è oggi assai ridotto anche quando soggettivamente lo si volesse esercitare (e non è certo il caso delle forze politiche maggioritarie oggi in occidente sia sul piano politico che sindacale). Questo ha reso il conflitto sociale esercitato su base nazionale assai meno efficace nei confronti del capitale, a partire dal capitale finanziario che si è sviluppato ed internazionalizzato enormemente. Con la crisi questo fenomeno si è aggravato perché l’abbondanza di capitale si presenta concretamente come potere di ricatto arbitrario del capitale che mette in competizione i lavoratori tra di loro al fine di ottenere le migliori condizioni per la sua valorizzazione. In questo contesto e in assenza di un progetto generale che unifichi politicamente la classe e quindi ne massimizzi il peso politico soggettivo, la percezione a livello di massa nei paesi occidentali è quella di una relativa onnipotenza del capitale.
Il punto di difficoltà è quindi che concretamente l’abbondanza del capitale si presenta per i popoli come penuria – di stipendi, di lavoro, etc. – ed è quindi decisivo individuare il percorso politico attraverso cui ricostruire il potere del lavoro dentro la nuova situazione. Non basta l’appello a lottare di più perché se le lotte non sono in grado di incidere efficacemente sull’accumulazione del capitale, hanno un grado di efficacia insufficiente a raggiungere gli obiettivi prefissati. Così come non basta l’appello all’unità perché il capitale attraverso il suo potere di ricatto è in grado di isolare i comparti di classe che lottano a livello aziendale o nazionale.
Il percorso politico che noi individuiamo si basa quindi su due punti.
In primo luogo costruire soggettività antagonista e strumenti di democrazia partecipata ad ogni livello dell’articolazione statale e produttiva: dal comune e dalla fabbrica al parlamento e al conflitto nazionale. La costruzione conflittuale della soggettività, la sua espressione in forme democratiche e partecipate in organismi autonomi e la capacità di incidere sul piano della rappresentanza a tutti i livelli è indubbiamente il primo terreno su cui muoversi ma non può limitarsi a ripercorrere le forme del ciclo di lotte precedenti. La costruzione conflittuale della soggettività sin questo quadro non passa unicamente per una azione rivendicativa o di rappresentanza ma vede una centralità oggettiva nel terreno del mutualismo e della costruzione di forme di autogoverno che puntino a rispondere a bisogni immediati della popolazione a partire dalle risorse materiali e relazionali in grado di generare l’autorganizzazione popolare. La costruzione della soggettività è quindi un percorso politico che intreccia autogoverno, rivendicazione e rappresentanza. Sappiamo che questo livello non è sufficiente a incidere organicamente sul capitale ma è il punto di partenza senza cui nulla può essere modificato e in ogni caso occorre utilizzare tutti i margini di potere che sia a livello locale che nazionale si possono esercitare sul capitale.
In secondo luogo occorre operare per unificare i conflitti sociali e per costruire istituzioni democratiche ad un livello tale da poteri incidere efficacemente sul capitale. Il livello minimo su cui costruire questa azione è quello continentale: l’Europa. In questo quadro si situa la proposta dell’AAA avanza dal Partito della Sinistra Europea, il lavoro di costruzione di un movimento antiliberista europeo, il tema del coordinamento e dell’azione sindacale su scala europea.
L’alternativa di società per realizzarsi necessita di questa ampiezza di intervento.
La separazione tra questi due livelli è ovviamente analitica: nel concreto un efficace processo di trasformazione non può che procedere in modo intrecciato ed al di fuori di ogni linearità o progressismo. Il punto centrale è che il venir meno dei margini di riformismo di cui parla la globalizzazione neoliberista che abbiamo descritto, fa sì che ogni processo di trasformazione non possa avvenire con un accumulo di forze che linearmente trova una sede ove aumentare progressivamente la propria incidenza – attraverso la contrattazione o la mediazione legislativa – ma si debba esercitare attraverso forzature e rotture.
Non a caso il percorso di lotta e l’accumulo delle contraddizioni che ha portato alla probabile sconfitta del progetto ipercapitalista e iperliberista del TTIP, ha seguito esattamente questo percorso di intreccio tra il livello europeo, il livello nazionale e quello locale.
Non sfugge a nessuno che un conto è fermare un progetto altrui e un conto è avere la forza per realizzare il proprio ma è proprio la connessione tra rotture prodotte consapevolmente e contraddizioni che si aprono nel sistema dominante che determina il terreno della contesa su cui agire.
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Tra le numerose contraddizioni occorre sottolineare come la crisi della globalizzazione neoliberista sia caratterizzata da una spiccata tendenza alla guerra, frutto diretto della concorrenza, in primo luogo tra aree geopolitiche (le grandi imprese hanno processi di fusioni più che una vera e propria concorrenza mentre questa è il principio disciplinatore della parte bassa della società, sia per quanto riguarda i popoli, il lavoro e il tessuto delle piccole e medie imprese). Questa globalizzazione che ha al centro l’allargamento dei margini di profitto e la centralizzazione dei capitali, ha pesanti pratiche distruttive dell’ambiente – considerata al pari della vita degli umani una variabile dipendente e sottoposta al capitale – e determina la marginalizzazione di crescenti strati di popolazione nei paesi del sud del mondo ma anche nelle metropoli capitaliste. E’ il complesso di questi fenomeni che dà luogo a migrazioni di massa che vanno ben oltre l’aspettativa di migliorare la propria vita: riguardano la possibilità di averla una vita.
Abbiamo quindi un capitalismo che ha rotto con ogni prospettiva universalistica e produce disparità sempre maggiori in un contesto di messa in discussione concreta della vita sul pianeta. E’ un capitalismo che ha abbandona ogni progressismo e che propone per masse popolari sempre maggiori – anche nelle metropoli capitalistiche – una esistenza in cui non solo non vi sono miglioramenti ma piuttosto peggioramenti delle proprie condizioni di vita.
Questa situazione contrasta radicalmente con la potenzialità economica del sistema e trova la sua ragione unicamente nel tentativo di riprodurre rapporti di dominio e di sfruttamento. Non è quindi il problema di uno scarso sviluppo economico o di uno scarso sviluppo delle forze produttive alla base del malessere crescente: il problema è dato proprio dai rapporti di produzione, cioè dalla forma della produzione capitalistica.
In questo contesto la nostra proposta comunista è una proposta universalista che a partire dalla lotta allo sfruttamento del lavoro e della natura pone il tema della liberazione complessiva dell’umanità dal giogo del profitto e dalla scarsità artificiale che produce emarginazioni, sofferenze e guerra tra i poveri, di cui il razzismo è solo l’esito ultimo.
Si tratta quindi di declinare la proposta comunista in questa nuova situazione di abbondanza potenziale in cui il tema della redistribuzione delle risorse e del lavoro si saldano con la lotta per la tutela ambientale, per la piena signoria sul denaro, per la socializzazione dei mezzi di produzione e per il pieno sviluppo dei beni comuni. Occorre rovesciare la logica della privatizzazione sempre più accentuata in una prospettiva di socializzazione che faccia leva sull’aumento dei saperi sociali come base materiale di una possibile gestione della ricchezza collettiva sottratta ai ceti dominanti che operano al fine di riprodurre la propria posizione di privilegio e di potere al di fuori di qualsivoglia funzione sociale positiva. Il tema dei beni comuni, della socializzazione dei mezzi di produzione e del superamento della proprietà privata è storicamente posto dalla necessità di gestire razionalmente ed in forme non distruttive per l’umanità e per l’ambiente l’enorme capacità produttiva oggi presente. Questo tema è reso possibile oggi dalla larga diffusione dei saperi sociali al di fuori dei ceti dominanti ed è necessaria data la funzione parassitaria che questi ceti dominanti svolgono nel prelievo e nella centralizzazione del profitto finalizzata unicamente al consolidamento delle loro posizioni dominanti.
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Questa battaglia globale in cui la proposta comunista acquisisca compiutamente i termini di una proposta universalista trova la sua base di partenza proprio nella globalizzazione neoliberista e nella sua crisi, ha un suo primo punto di applicazione sul terreno europeo che non va letto come problema di politica estera ma come un livello indispensabile al fine di costruire un controllo politico e democratico sull’economia. I processi di globalizzazione e di centralizzazione del capitale hanno infatti concentrato potere nelle multinazionali che sono in grado di ricattare gli umani usando appieno la loro facoltà di spostare capitali, impianti produttivi e merci a piacimento, mentre gli umani sono legati al territorio e quindi ricattabili. All’origine della guerra tra i poveri sta proprio l’enorme capacità produttiva potenziale che essendo utilizzata parzialmente dota i manager strategici di un potere arbitrario enorme nella decisione di dove e come far lavorare gli umani. In questo contesto gli stati nazionali “normali” hanno perso gran parte del loro potere, della loro presa sul ciclo di accumulazione del capitale Non si tratta solo di un problema di normative ma di un problema di rapporti di forza insiti nella concentrazione della struttura di comando dei flussi di capitali e degli investimenti. Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta quindi come il livello adeguato a cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata.
La costruzione a livello europeo di una sovranità sulla moneta e sul capitale non ha nulla a che vedere con l’Unione Europea che è una costruzione liberista, che ha costituzionalizzato nei suoi trattati le politiche neoliberiste con una specifica torsione di austerità. Questa Unione Europea, contro cui si siamo battuti a partire dal voto contrario contro i trattati europei, non è riformabile e quindi va posta in crisi al fine di poterla superare per costruire una Europa dei popoli. Popoli che si possono riconoscere in quanto europei solo all’interno della costruzione di un dispiegato conflitto di classe che determini i tratti dell’altra Europa da costruire
In questa battaglia contro l’Unione Europea al fine di costruire un’Europa dei popoli in grado di esercitare una efficace sovranità politica sulla moneta e sul capitale, il terreno è quasi integralmente occupato da due avversari.
Il primo è quello delle destre moderate e tecnocratiche che spingono per avere più Europa al fine di dar vita ad un modello di integrazione europea compiuto.
Il secondo è quello dei nazionalismi che propongono di uscire da questa Europa per tornare agli stati nazionali.
La crescita dei nazionalismi è il frutto perverso delle politiche neoliberiste che accentuando la guerra tra i poveri e il senso di insicurezza complessivo, favoriscono il riemergere di ideologie reazionarie che vengono percepite come rassicuranti da una parte degli strati sociali colpiti dall’austerità.
Queste due ipotesi sono entrambe sbagliate: la prima non fa altro che formalizzare il dominio del capitale e livello europeo, la seconda – nella inefficacia del livello nazionale per incidere efficacemente sul capitale – è destinata a subire strutturalmente una egemonia di destra in cui assume una centralità assorbente la declinazione della sovranità nei termini di controllo dei flussi delle uniche merci che camminano sulle gambe: l’immigrazione.
Il conflitto tra queste due tendenze – che attraversano in forme diverse ed articolate le borghesie dei diversi paesi – indebolisce la capacità di governo del capitale, aumenta fortemente le contraddizioni e gli elementi di imbarbarimento sociale e civile.
In questo contesto in cui la forza del capitale internazionalizzato non riesce a determinare un ampio e attivo consenso alle sue politiche, noi ci battiamo per un’altra Europa facendo leva su due elementi: la massimizzazione delle forme di resistenza attuabili attraverso i residui poteri degli stati nazionali – disobbedienza ai trattati, disconoscimento del fiscal compact, costruzione di un doppio circuito monetario attraverso l’utilizzo dei titoli di stato – e la costruzione di un movimento popolare di massa contro l’austerità e il neoliberismo a livello europeo. La proposta della Alliance Against Austerity lanciata dal Partito della Sinistra Europea evidenza la sua giustezza, così come risultano centrali le proposte di un QE per i popoli, di un piano europeo per la piena occupazione, che sono al centro della piattaforma del Partito della Sinistra Europea.
Il nostro obiettivo è quindi il rafforzamento del Partito della Sinistra Europea e di un movimento di massa contro l’Austerità al fine di mettere in discussione questa Unione Europea e le sue politiche per linee di classe e non per linee nazionali, identificando il nemico nelle politiche neoliberiste e quindi nei trattati che le hanno istituzionalizzate e non nell’Europa in quanto tale. L’eventuale rottura per linee statali all’interno di questa battaglia generale è da mettere in conto ma non è un nostro obiettivo: non ci battiamo per l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea o per l’abbandono dell’Euro. Nel caso in cui questa eventualità si realizzasse nel corso del conflitto noi proporremo immediatamente una costruzione europea basata sulla sovranità sulla moneta e sul controllo democratico degli investimenti e dei capitali. In questo quadro particolare rilievo ha la costruzione di un rapporto privilegiato con i paesi del Sud Europa che subiscono complessivamente gli aspetti più pesanti dell’attacco neoliberista.
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Per quanto riguarda il terreno nazionale (qui non affronto nodi questione meridionale, di genere, governo Renzi, riforma costituzionale, forze sociali e politiche, sindacato, etc. che dovranno essere contestualizzati anche a partire dal referendum costituzionale e che ovviamente devono essere presenti nel documento) è evidente che il nostro compito è quello di portare nel concreto dello scontro sociale l’impostazione politica che abbiamo definito sul piano generale. Il tema che abbiamo chiamato “i soldi ci sono” è lo strumento indispensabile per costruire una nostra mobilitazione e un nostro progetto politico riconoscibile che si opponga nettamente al “prima gli italiani”. I soldi ci sono è la traduzione sul piano politico dell’analisi e della proposta che facciamo nell’attuale fase della globalizzazione capitalista. I soldi ci sono permette di disvelare l’inganno e di porre innanzitutto in termini di classe il tema del reperimento delle risorse: devono pagare i ricchi. Questa proposta che individua il nemico nei ricchi si contrappone alle narrazioni basate sulla scarsità oggettiva che caratterizzano tanto la destra tecnocratica (il conflitto tra generazioni) che la destra razzista e nazistoide (il conflitto con i migranti). I soldi ci sono è una proposta politica e nel contempo un terreno di riapertura del conflitto di classe contro la logica della guerra tra i poveri. I soldi ci sono deve diventare l’elemento riconoscibile della rifondazione comunista che vogliamo proporre, il suo elemento connotante.
Ovviamente i soldi ci sono è la premessa per il nostro programma politico che ha al suo centro la proposta del Piano per il lavoro inteso come individuazione dell’obiettivo della piena occupazione finalizzata alla messa in sicurezza delle abitazioni, del territorio, allo sviluppo del welfare, all’allargamento dell’istruzione e dell’offerta culturale, ad una riconversione ambientale e sociale dell’economia e che ha nella riduzione dell’orario di lavoro un punto centrale. Questa proposta deve intrecciare il terreno della lettura della fase e della proposta programmatica e deve puntare a determinare la costruzione di conflitto e di pratiche di autorganizzazione e mutualismo. Non quindi una proposta di propaganda – anche – ma una proposta di movimento a partire da ogni emergenza sociale.
Il secondo livello di intervento riguarda le proposte di disobbedienza ai trattati e quindi l’aumento e la qualificazione della spesa in deficit al fine di avere le risorse per finanziare la redistribuzione del reddito e il Piano per il lavoro.
Il terzo livello è quello della politica europea di cui il QE per i popoli per finanziare un piano europeo per il lavoro, il welfare, l’inclusione sociale, la riconversione ambientale e scoiale dell’economia, è il punto centrale.
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La realizzazione di questo progetto politico è l’obiettivo di fase di Rifondazione Comunista e questo progetto è irrealizzabile senza l’autonomia politica e progettuale dei comunisti. Se Rifondazione Comunista non ci fosse bisognerebbe inventarla! Il nostro problema è quindi quello di ricostruire il nostro ruolo politico nel paese a partire da questo impianto di fondo, da questa parola d’ordine che rappresenta un programma e che deve diventare una “bandiera piantata nella testa della gente”.
Il rafforzamento politico e organizzativo del partito, la sua vera e propria ricostruzione in alcune zone del paese, deve essere fatta attorno a questo preciso progetto politico che individua il ruolo storico dei comunisti nella capacità di cogliere la nuova fase del capitale e di tradurre in obiettivi chiari e praticabili questa consapevolezza teorica ed analitica.
Sulla base del progetto politico che abbiamo sopra delineato si possono individuare le principali linee di azione e ristrutturazione del partito che deve essere in grado di agire al fine di:
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Fornire una analisi alternativa della crisi e delle sue ragioni
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Proporre un percorso concreto di alternativa di società
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Aggregare i portatori di saperi sociali e le forze intellettuali indispensabili al fine di aprire una battaglia per l’egemonia sui nodi che sono al centro del nostro progetto politico
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Operare per la costruzione di una soggettività sociale antagonista – mutualismo, conflitto, rivendicazione, etc. – nei termini sopra richiamati
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Costruire relazioni con il complesso delle forze sociali, culturali e politiche che hanno progetti non contraddittori con il nostro.
A tal fine serve un partito non solo presente sul territorio e nei conflitti ma un partito con militanti in grado di sviluppare una azione politica concreta nella costruzione quotidiana del progetto.
Questo significa la cura dell’organizzazione e del suo autofinanziamento, la formazione dei militanti e dei dirigenti al fine di dotarli del necessario bagaglio culturale e politico necessario allo sviluppo del progetto, la costruzione di una comunicazione politica che renda chiaro il nostro progetto a livello di massa e lo esprima in termini non residuali, la costruzione di un lavoro specifico indirizzato alle forze intellettuali, la cura certosina del radicamento sociale del partito. In questo quadro si tratta di fare molti approfondimento a partire dalle forme in cui siamo organizzati e che andrebbero articolate (penso ad esempio alla differenza nel fare politica tra aree metropolitane e il resto del paese) così come si tratta di definire come concretamente si supera il devastante correntismo che caratterizza il nostro funzionamento attuale e che diventa un pesante limite nell’azione politica.
Si tratta di un lavoro enorme politico organizzativo che parte dalla cura dell’autofinanziamento e arriva all’invenzione delle parole con cui esprimere il conflitto di classe in termini che possano favorire la costruzione di un immaginario alternativo a quello del capitale.
Questo progetto politico deve esplicitare che le fondamenta su cui si poggia sono date dalla Costituzione repubblicana nata dalla resistenza, che noi riconosciamo come mito fondatore della civiltà del nostro paese. Noi siamo cittadini italiani, cioè che si riconoscono nello spirito e nella lettera della Costituzione repubblicana e che hanno nella lotta partigiana antifascista la loro religione civile. Fuori da questo quadro ci sono i collaborazionisti.
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La necessità di sconfiggere il neoliberismo su scala italiana ed europea ci deve portare a costruire un CLN antiliberista che dia vita ad un polo politico antiliberista di sinistra in grado di rappresentare quella larga parte di popolazione che è colpita dalle politiche governative e padronali. Abbiamo fatto un buon lavoro di costruzione di liste unitarie di sinistra per le ultime elezioni amministrative – salvo alcune realtà che avendo perseguito una diversa linea politica hanno prodotto la totale irrilevanza di rifondazione in quei contesti – ma questo non è certo sufficiente. Serve un progetto nazionale con una sua visibilità e una sua riconoscibilità. Abbiamo operato in questi anni per dar vita a questa aggregazione che non si è potuta realizzare a causa delle ambiguità politiche presenti in SEL e della incapacità di porre sul terreno dell’innovazione la questione delle forme del soggetto politico da costruire. Un soggetto che deve essere antiliberista e quindi alternativo agli altri poli politici presenti e nel contempo plurale nella sua costituzione e nel suo funzionamento, in modo da rispondere positivamente all’aggregazione del complesso degli uomini e delle donne che in forma organizzata o meno si battono contro il liberismo (a questo riguardo molti spunti sono presenti nel documento della segreteria prodotto l’anno scorso). La costruzione di questo soggetto ha un passaggio decisivo nell’autorevolezza e nella credibilità di chi avanza la proposta di costruzione di questo soggetto politico della sinistra antiliberista, in modo da poter effettivamente dar luogo ad un processo ampio, partecipato e democratico. Per questo a partire dalla presa d’atto dell’incapacità del tavolo delle forze politiche di dar luogo ad un risultato positivo, occorre percorrere altre strade che si pongano l’obiettivo di aggregare questa “credibilità costituente”. Per questo riteniamo molto importante l’esperienza che si sta avviando di confronto tra le liste di sinistra alternative al PD che si sono presentate alle elezioni locali nel corso di questi ultimi anni e riterremmo molto positiva l’eventuale disponibilità di personalità espressione di queste esperienze o che provengano dalle lotte sociali a agire positivamente questo processo. Il Partito della Rifondazione Comunista è quindi impegnato a perseguire questo necessario risultato che è parte integrante del suo progetto politico.