Intervista a Sergio Cofferati di Francesco Piccioni
Il «confronto» in atto tra le parti sociali sta maturando un risultato pericoloso. A cominciare dall’art. 18. Parla Sergio Cofferati, il segertario generale della Cgil che 10 anni fa era riuscito a sventare l’assalto berlusconiano alla prima delle tutele per ogni lavoratore.
Come vedi questa trattativa sulla riforma del mercato del lavoro?
Mi pare che sia stata caricata di significati politici impropri, come quelli che riguardano la vita futura del governo e che sia anche avvolta ancora da un po’ di nebbia. Nel corso degli ultimi giorni siamo passati da momenti di ottimismo ad arretramenti pesanti nell’umore dei negoziatori; ora è tornato l’ottimismo. Ovviamente un accordo avrebbe senso, ma deve rispettare i diritti fondamentali delle persone e rafforzare i sistemi di protezione. Sono le due condizioni perché abbia senso: non so se sono a portata di mano dei negoziatori. C’è un’anomalia di partenza: oggi la priorità non è la riforma del mercato del lavoro, ma la mancanza di lavoro; e di conseguenza la crescita. Discutere a lungo su come organizzare una cosa che non c’è è perlomeno singolare.
Questo riguarda tutta Europa…
Politiche di crescita non ci sono in Europa né in Italia. C’è questa idea – sbagliata – che basti assicurare stabilità e controllare il debito per avere effetti positivi. Sono due elementi importanti, ma da soli non risolvono nulla. E non durano nel tempo, se non sono figli di una crescita economica. Se sono l’effetto di azioni di contemento molto dure – come quelle messe in atto in molti paesi europei – il rischio evidente è che non solo non ci sia un approdo duraturo per quanto concerne la stabilità, ma che ci siano fortissime tensioni sociali a causa del contenimento senza crescita. L’aumento della disoccupazione e della povertà sono purtroppo dati comuni in Europa e in Italia; e sono segnali robustissimi, che dovrebbero far riflettere di più non solo le istituzioni europee, ma anche i governi nazionali.
Hai visto le proposte di riforma degli ammortizzatori sociali?
Una soluzione che riduca gli effetti delle protezioni perché ne contrae la durata e ne abbassa il valore sarebbe una soluzione non solo sbagliata perché punitiva, ma anche – ancora una volta – negativa sul piano della crescita possibile. Noi abbiamo già avuto un effetto depressivo, che stiamo misurando adesso, con la manovra iniziale del governo; soprattutto per la parte riguardante la riduzione del valore delle pensioni. Se a questo si dovesse aggiungere un effetto ulteriormente depressivo, perché riduce la capacità di spesa delle famiglie, invece di uscire dal vicolo nel quale siamo e rovesciare una tendenza, questa si accentuerebbe. Con conseguenze sociali difficili da prevedere.
Le misure presentate come «riduzione della precarietà» sono efficaci?
Noi abbiamo bisogno di una riduzione forte delle tipologie contrattuali, non della manutenzione di ogni singola tipologia. Siamo il paese che ha il numero maggiore di contratti possibile – 46 – dunque lo sfoltimento necessario e possibile è molto consistente. E di questo non c’è traccia.
E per quanto riguarda l’art. 18?
L’ipotesi che prospetta il governo svuoterebbe l’art. 18 così com’è arrivato fino a noi. Introdurre la divisione, già in partenza, tra la discriminazione e la ragione economica ha una ricaduta negativa. Non ho mai conosciuto un imprenditore che abbia licenziato qualcuno dicendo che lo allontava per una ragione politica o sindacale. Se c’è un’altra forma per argomentare il licenziamento, e questa è addirittura prevista dalla legge, è chiaro che tutti utilizzeranno quell’argomento. Credo poi che si sbagliato – anche sul piano dei valori – introdurre la possibilità di un risarcimento a fronte di una mancanza di giustificazione da parte dell’impresa.
Ma è possibile fare sindacato senza che i singoli lavoratori abbiano una relativa autonomia e libertà di giudizio rispetto alle pretese dell’azienda?
Calerebbe nel tempo, oggettivamente, l’autonomia del sindacato. Per autonomia intendo la capacità di rappresentare un punto di vista diverso da quello delle imprese. Il rischio di una china è evidente. Per questo la trattativa è molto delicata; per tutte le implicazioni che ha anche sul futuro della forma-sindacato e delle funzioni del sindacato.
Anche delle modalità di conflitto?
Certo, meno autonomia hai nel rappresentare i bisogni e punti di vista delle persone, più difficile diventa l’attività conrattuale.
Da ex segretario, avresti un consiglio da dare alla Cgil?
No, per carità… Sono loro a sapere com’è la trattativa. Spero solo che, se ci sarà un accordo, questo venga anche accompagnato da un giudizio dei lavoratori. In un accordo su queste materie, quando ci sono diritti in discussione, si impone quel giudizio.
È la fine del «modello europeo»?
C’è una tendenza a mettere in discussione il valore del modello sociale europeo. Secondo me, invece, alla luce proprio alla luce dei mutamenti più rilevanti nella società, ha ancora un ragion d’essere. Siamo al paradosso che negli usa Obama pensa a forme di welfare, per proteggere i suoi cittadi, mentre l’Europa mette in discussione i fondamenti del suo welfare. Servirebbe un grammo di saggezza, non molta.