Dopo il Brancaccio: cosa ci chiede l’Europa
di Roberta Fantozzi 
Si discute come è ovvio dell’iniziativa del Brancaccio. Si discute sui social, si commenta sui giornali.
C’è chi lo fa distorcendone completamente il senso, come Paolo Mieli su Il Corriere.
C’è chi, a sinistra, la giudica scarsamente unitaria nella propensione di fondo, “identitaria” come ha fatto Il Manifesto.
Viene da rispondere che… “ce lo chiede l’Europa”! Non l’Europa delle lettere della Commissione, dei diktat della Troika, ma quello che è successo in questi anni e mesi in risposta a quelle politiche.

Che è semplice: ovunque la sinistra ha conosciuto affermazioni significative, cioè ha recuperato un senso nella società, lo ha fatto costituendosi in alternativa netta al neoliberismo e attraverso figure capaci di incarnare coerentemente e credibilmente quell’alternativa.
Ovunque: dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Unidos Podemos, alla Francia di Melenchon, alla Gran Bretagna di Corbyn.
Certo si tratta di esperienze diverse, ma tutte accomunate da quel segno di fondo.
Per stare alla cronaca più recente, in Francia Melenchon alle presidenziali ha rovesciato i rapporti di forza tra la sinistra di alternativa e il partito socialista che pure si presentava con la candidatura di Hamon, dopo aver sconfitto Valls, e con un programma che parlava di riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore e di reddito universale.
Che le legislative abbiano sovra-premiato Macron in elezioni in cui l’astensionismo ha raggiunto dimensioni stellari, e che un sistema elettorale profondamente distorsivo della volontà popolare, abbia infine assegnato qualche seggio in più al partito socialista, nulla muta rispetto al segno politico del voto.
Ne è diverso quello che emerge dalle elezioni in Gran Bretagna, dove con tutta evidenza non ci si dovrebbe lasciar fuorviare dal fatto che Corbyn l’alternativa l’abbia dovuta conquistare dentro il Partito Laburista, come sarebbe avvenuto negli Usa se Bernie Sanders avesse vinto le primarie del Partito Democratico.
Nei paesi anglosassoni in particolare, è un sistema politico-istituzionale consolidato che spiega perché un’opzione alternativa sia costretta ad affermarsi all’interno dei partiti “tradizionali”, ma quell’alternativa non è per questo meno netta.
Non lo sarebbe stata con Sanders il cui ruolo è cresciuto insieme a movimenti come Occupy Wall Street e che ha fatto rivivere negli Stati Uniti la parola socialismo, innominabile dagli anni ’20 del novecento.
Non lo è stata con Corbyn, che ha rovesciato radicalmente il Labour del blarismo avanzando parole d’ordine anch’esse per lungo tempo innominabili: dal pacifismo alla critica radicale alle privatizzazioni. E su queste basi ha recuperato consensi in misura inimmaginabile.
C’è un motivo alla base di tutto questo. E’ quello che è accaduto nella società europee e non solo, negli anni del neoliberismo e della sua crisi. Ed è quello che è accaduto anche in Italia, non sul terreno della rappresentanza politica, ma con il voto nel referendum sulla Costituzione.
C’è stato un NO sociale il 4 dicembre. E’ stato il voto di quelle parti del paese che hanno detto NO alla propaganda renziana a partire dalla propria condizione materiale, dai processi di impoverimento e precarietà, dalla frustrazione del presente e dall’insicurezza del futuro.
E c’è stata, a sinistra, un’attivazione capillare di tante realtà che in questi anni hanno continuato a far politica in modo diverso, costruendo conflitti magari parcellizzati, pratiche solidali magari circoscritte, ma che rappresentano non solo una resistenza ma un pensiero di futuro.
O si è capaci di far diventare protagonista quella “rabbia” o non si va da nessuna parte. O si è capaci di prefigurare un’alternativa e una speranza concreta, o non si ricostruisce nessuna connessione sentimentale e nessuna sinistra popolare.
Non è stato per identitarismo che la platea del Brancaccio ha applaudito fortemente i passaggi della relazione di Tomaso Montanari in cui si ricostruiva il lungo processo di distruzione della Costituzione portato avanti dai governi di centrosinistra. Piuttosto per bisogno di verità, quella che si deve poter dire, perché altrimenti non si parla alla società, né alla “rabbia” né alla speranza.
Bisognerebbe piuttosto domandarsi perché da noi ci si entusiasmi per le radicalità appena fuori dai nostri confini e si trovino inopportune quelle nostrane, magari chiedendosi poi perché qui non si rinvegnano nè Corbyn nè Melanchon.