Di recente abbiamo avuto modo di sentire Pino per invitarlo ad un seminario su lavoro, crisi e mutualismo da tenere in Veneto, organizzato dal PRC regionale.
Pino, pur manifestando grande apprezzamento per l’iniziativa ha gentilmente declinato l’invito e così ci ha risposto: “vedo che il seminario (giustamente in un momento come questo) è molto proiettato sull’iniziativa politica e sociale immediata. Sia per mia scelta sia per la mia oggettiva condizione di isolamento, non sono in grado di corrispondere ad esigenze così stringenti di mobilitazione e di movimento. La mia età ed una realistica valutazione mi conducono a cercare di dedicare quel che resta della mie forze alla riflessione e allo studio nel tentativo di elaborare alcuni elementi di “cultura politica”. Sul sindacalismo, sulle forme della cooperazione politica, sul
mutualismo ho cercato di aprire alcuni spiragli culturali: spetta ad altri, a giovani militanti,
verificare e sviluppare nell’azione l’eventuale utilità di suggestioni e ipotesi. Piena
disponibilità quindi a contribuire a riflettere sui “presupposti” di una azione politica e
sociale nel nostro tempo.”
Come sempre modesto e schivo, Pino riteneva di non essere in grado di corrispondere alle nostre aspettative così fortemente schiacciate sul presente. Nonostante la sua modestia, le cose non stavano affatto così, anzi. Ogni suo ragionamento, scritto, contributo si misurava col presente. E non poteva che essere così: tra i tanti aspetti che lo hanno contraddistinto, sicuramente viene fuori quello di uno studioso di storia (oltre che di sociologia, economia, scienza della politica) militante.
Militante nel senso di colui che ha scelto da parte stare, e avendo scelto questo mette a disposizione il suo lavoro, il suo studio, la sua passione per un progetto politico; anche senza prendervi parte direttamente come fece negli ultimi anni.
Non va dimenticato che Pino fu dirigente delle organizzazioni del movimento operaio, che quindi visse direttamente lo sforzo organizzativo finalizzato alla trasformazione delle cose esistenti.
Un’esperienza che si portava dentro e che ne ha segnato profondamente lo sviluppo culturale e di studio.
Quando venne direttamente interrogato sul significato del suo impegno negli studi storici, così rispose: “Penso che occorra aprire nuovi orizzonti della trasformazione sociale e questo richiede (strumentalizzo abusivamente Hobsbawm) di “reinventare la tradizione”, collegando il presente nostro e soprattutto le nuove generazioni ad un passato selezionato di pensiero, di esperienze pratiche ed associative capaci di entrare in sintonia positiva con i bisogni e le tensioni del presente. Quando, nelle esperienze della giovane militanza, si costruiscono le camere del lavoro e del non lavoro, quando ci si richiama al mutualismo, quando si ricercano spunti da una tradizione anarchica politicamente annientata, si esprime appunto l’urgenza di far lievitare dentro il presente una tradizione reinventata.”
Poiché non sono nelle condizioni di tracciare un ricordo di Pino Ferraris (moltissimi altri lo hanno conosciuto di gran lunga prima e molto meglio di me), preferisco attenermi a tre possibili tracce di lavoro (come le avrebbe chiamate lui) da riprendere, approfondire e sviluppare.
Compito che, appunto come ci ricordò lui, spetta “a giovani militanti, verificare e sviluppare nell’azione l’eventuale utilità di suggestioni e ipotesi”.
Forme di organizzazione della politica.
Parto dalla necessità di ragionare di una diversa forma partito, meno politicista e più sociale.
Aldilà delle tante chiacchere sul superamento della “forma partito”, gli studi di Pino ci danno la possibilità di ragionare concretamente sul “che fare”, riprendendo esperienze storiche per lo più ignorate dalla storiografia “ufficiale” del movimento operaio.
Si tratta di un lavoro di scavo, di riscoperta (o addirittura di scoperta tout court) di culture politiche, esperienze di lotta e organizzazione, materiali di discussione e riflessione politica più o meno volutamente dimenticati.
Non a caso i riferimenti principali di Pino affondano le radici proprio nella nascita delle prime organizzazioni del movimento operaio caratterizzate dalla prevalenza dell’elemento “sociale”.
Osvaldo Gnocchi Viani, Romeo Romei e Giuseppe Garibotti, in Italia, nella pianura padana, danno vita alla prima rete di Camere del Lavoro e Case del Popolo capaci di intercettare e raccogliere le prime istituzioni proletarie di classe: società di mutuo soccorso, leghe di resistenza, circoli e scuole di cultura popolare, cooperative, sindacati.
Cesar De Paepe e Vandervelde fanno lo stesso in Belgio.
Le Case del Popolo del socialismo padano e il Vooruit di Gand sono i centri di organizzazione del proletariato nei quali trovano spazio e coordinamento tutti gli istituti di classe.
È dal facondo intreccio tra questa ricco, variegato, plurale universo di istituti di classe che nasce il partito politico che, proprio per la particolare genesi, non può che avere un carattere fortemente sociale tanto da essere in grado di prefigurare una alternativa di società.
Si tratta di strumenti che il proletariato si dava per corrispondere ai propri bisogni sociali immediati: dalla difesa delle condizioni di lavoro all’educazione; dal consumo di generi di prima necessità alle prima forme di assistenza sociale arrivando anche all’organizzazione e gestione degli spazi di socialità dove passare il tempo libero e rafforzare legami solidaristici.
E solo in secondo momento, tutta questa fitta rete di “istituti proletari”, si federava per dar vita al partito politico: così è stato nel 1892 con la nascita al Congresso di Genova del Partito dei Lavoratori Italiani (il primo Partito Socialista), così è stato in Belgio nel 1885 con la nascita del Partito Operaio Belga.
Sono 195 soggetti collettivi, tra società operaie, circoli operai, leghe di resistenza, società di mutuo soccorso, associazioni di lavoratori, sindacati, circoli culturali, società morali che danno vita al partito socialista in Italia.
Mentre in Belgio, il Partito Operaio Belga è un coordinatore delle plurime forme di associazionismo popolare: ad esso aderiscono 7 leghe di resistenza, 5 cooperative, 5 società di mutuo soccorso, 26 sindacati, 10 gruppi di cultura popolare e 7 circoli politici.
Lo Statuto del partito dei lavoratori italiano (1892) e la Carta di Quaregnon (1894) sono i documenti ufficiali nei quali viene riconosciuto il carattere federativo e sociale delle formazioni politiche del proletariato.
Mentre il modello tedesco di partito (anche a causa dei colpi della repressione bismarckiana) è fortemente centralizzato, gerarchico, fino quasi a copiare lo Stato (uno “Stato nello Stato”); al contrario, il modello belga “propone la convergenza del vasto pluralismo delle libere associazioni per far emergere “un’altra società” dentro la società”.
Se c’è da costruire un’altra società, il momento strettamente politico (partitico) da solo non basta; da qui la necessità di costruire il partito come un coordinatore delle plurime forme di associazionismo operaio.
Il partito belga era strutturato sulla base di un principio federativo territoriale (chi lo propone in Italia è oggetto di anatemi e di critiche che denotano una colossale ignoranza, pari all’arroganza di chi li esprime) e federativo funzionale: il federalismo funzionale faceva si che i diversi soggetti collettivi mantenessero le loro autonomie ma, al tempo stesso, “si incontrassero in modo sinergico e collaborativo nella vasta rete delle 172 Case del Popolo, centri polivalenti di vita sociale e nodi essenziali della rete federativa territoriale e funzionale”.
Se è il principio federativo (sia territoriale che funzionale) a costituire uno dei principali motivi di riflessione sull’esperienza belga e, oggi, per la costruzione del Partito Sociale, dobbiamo chiederci quale ragionamento è stato sviluppato.
Mimmo Porcaro con un testo del 2000 (“Metamorfosi del partito politico. Associarsi contro il capitale”), e con spunti ripresi anche ne “L’invenzione della politica”, ha proposto temi di riflessione sulla costruzione di una nuova soggettività politica che riecheggiano temi proposti da Pino Ferraris.
Porcaro, infatti, parla di un “partito reale”, distinto dal “partito formale”, costituito proprio da un insieme di istituzioni eterogenee “che agiscono su piani diversi della totalità sociale: organizzazioni specialistiche che, coordinandosi, tentano di sopperire alle deficienze del partito politico senza per questo rinunciare alla fondamentale funzione “sistemica” di partito, alla sua capacità di rendere coerente ed efficace la parte sociale”.
All’epoca dei Social Forum questi ragionamenti rimasero sullo sfondo; eppure, nelle città in cui questi venivano concretamente organizzati, proprio di questo si trattava: Centri Sociali e Sindacati, organizzazioni di volontariato e cooperative di consumo, collettivi di precari e associazioni ambientaliste. Un partito “reale” che però rifuggiva come la peste la riflessione su come dare struttura politico-partitica a questa rete di esperienze sociali.
Il tentativo di costruire la Sinistra Europea, che forse avrebbe potuto rappresentare un serio progetto di costruzione di un soggetto politico a partire dalle soggettività collettive sociali, naufragò ben presto sotto la pressione di un ceto politico preoccupato unicamente di salvaguardare le proprie chiappe sugli scranni di Montecitorio (salvo fustigare, ad ogni assemblea l’istituzionalismo e l’isolamento dei partiti sotto la formula magica della “crisi della politica”).
In Rifondazione Comunista, dopo il Congresso di Chianciano, è stato lanciato il progetto di costruzione del “partito sociale”.
Un progetto strategico di ripresa dell’attività politica che valorizzasse il versante sociale delle iniziative e dei bisogni di classe, in grado di dar vita anche ad esperienze interessanti come i GAP, le Brigate di Solidarietà Attiva, la recente Rete per l’Auto-organizzazione Popolare (RAP): tutte esperienze encomiabili per l’impegno profuso dai compagni.
Rimangono, tuttavia, nodi irrisolti: il fatto che il partito sociale non sia stato assunto dall’intero corpo del partito come un aspetto prioritario di riorganizzazione dell’attività politica; la sua sostanziale relegazione in un ambito secondario (per lasciare ai Dirigenti la vera Politica); il fatto che abbia svolto anche un ruolo di supplenza nell’ambito della rarefazione di soggettività sociali (spesso è stato il Partito a costruire i soggetti sociali e non viceversa; cioè per certi versi si è assistito ad un processo inverso a quello sviluppatori agli albori del movimento operaio).
Mutualismo e auto-organizzazione popolare
Non bisogna credere che per Pino la riscoperta del mutualismo e dell’autorganizzazione popolare coincidessero con la dismissione dei servizi sociali da parte del livello pubblico, tutt’altro: “ dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza degli anni 80 e nei primi 90 si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare tra istituzioni e associazioni in grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il privato sociale)”.
Niente a che vedere, quindi, con la sussidiarietà orizzontale di Formigoni e soci dietro la quale si nascondono i processi di privatizzazione del welfare, ma semmai una domanda di partecipazione popolare: “è possibile che i destinatari dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata ‘”.
Nessuna concessione per il cosiddetto privato sociale: “oggi vediamo che i cardini di welfare, scuola, sanità e previdenza sono presi a picconate. Hanno spazio crescente le ibride macchine organizzative che sono un misto di degradato parastato e di cattiva imprenditorialità cui viene affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali”.
Sferzante il suo giudizio sul Forum del Terzo Settore: “rappresenta la congiunzione trasversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie.”.
Per Pino parlare di welfare locale attivo significava riuscire ad attivare la partecipazione popolare: “una sussidiarietà circolare che promuova la domanda associata”.
La dimensione collettiva, organizzata e, al tempo stesso, sia autogestionaria che rivendicativa è sempre presente nei ragionamenti su mutualismo e welfare di Ferraris.
D’altronde, sempre scavando nella storia, anche i primi socialisti italiani oltre al mutuo soccorso con la conquista dei Municipi cominciavano a costruire le prima forme di welfare pubblico.
Il municipalismo socialista si intrecciava con il mutualismo popolare.
Il mutualismo che riprende Pino è una pratica che si fonda sul concetto di solidarietà intesa come reciproca obbligazione fra sodali: dal mutualismo così inteso nasce anche la resistenza del movimento operaio.
Nel mutualismo si esprime la solidarietà per; nelle organizzazioni di resistenza operaio la solidarietà contro.
Due tipi di solidarietà strettamente intrecciati tra loro, anche nell’esperienza storica del movimento operaio.
L’abbandono della solidarietà positiva ha segnato la delega allo Stato (e al mercato) della gestione degli ambiti di vita non direttamente connessi con la prestazione lavorativa: welfare e servizi sono finiti per esser gestiti unicamente con le logiche fredde e burocratiche della macchina statale; i momenti del tempo libero e del divertimento consegnati al mercato (con conseguenze anche in termini di costruzione dell’identità di classe; non la faccio lunga, ma si tengano ben presenti gli studi di Gianni Bosio sulla cultura popolare intesa anche come elemento di emancipazione proletaria).
Mutualismo e auto-organizzazione popolare: due esperienze strettamente intrecciate con il sindacalismo storico ma anche come proiezione per il futuro.
Sempre per stare all’esempio del Belgio fu il sindacalismo a “insediamento multiplo”, cioè presente nel luogo di lavoro e nella società, a garantire l’organizzazione di un proletariato che in alcune regioni (quelle meno industrializzate) poteva scontare gli effetti della dispersione territoriale e dell’intermittenza lavorativa. A Gand, ad esempio, con la costituzione di un fondo di disoccupazione il sindacato manteneva legati a sé i disoccupati o i lavoratori saltuari e li organizzava assieme ai lavoratori più stabili.
La stessa cosa fece la straordinaria esperienza degli Industrial Workers of the Word (I.W.W.) negli USA ad inizio 900 anche grazie ad una organizzazione e una pratica sindacale in grado di intercettare e mobilitare il proletariato precario e disperso dei taglialegna, dei lavoratori dei campi, dei ferrovieri, degli sguatteri e dei camerieri, oltre alle figure più conosciute della classe: gli operai delle acciaierie, delle aziende del gas, delle prime officine meccaniche (nel suo ultimo romanzo – “One big union” – Valerio Evangelisti offre un ottimo affresco del periodo).
Pur nelle profondissime differenze di condizione dovute a cento anni di storia, Pino riprende quelle esperienze: “nella attuale condizione di lavoro disperso, precario, non garantito, la mutualità può rappresentare un punto di coesione che, a partire dagli ambiti di vita, ricompone socialità e crea solidarietà dentro il lavoro”.
Se l’attuale prevalente conformazione della produzione disperde i lavoratori in più realtà produttive atomizzate e se l’attuale organizzazione del lavoro crea isolamento, allora spetta al mutualismo popolare costruire reti di solidarietà in grado di funzionare anche in ambito lavorativo quale possibile elemento di ricomposizione e unità.
Tra gli esempi citati, quello della Free Lancers Union di New York, una associazione sia mutualistica che sindacali, di lavoratori tecnologici che garantisce reciproca assistenza tecnica e giuridica difendendo la qualità e le tariffe del lavoro: solidarietà anziché anziché concorrenza tra lavoratori.
Si tratta della necessità di coalizzarsi di cui parla Sergio Bologna nel suo ultimo libro (“Vita da free lance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro”) quando passa in rassegna, attraverso Berlino, gli Usa, Londra, Parigi le forme di associazionismo dei lavoratori autonomi di seconda generazione.
Ma in Italia la strada da percorrere è ancora lunga, anche se non mancano le prime forme di organizzazione di mutualismo a partire da lacune Camere del Lavoro.
Il cosiddetto Terzo Settore non aiuta, stretto tra il volontariato pietistico – filantropico ed un “privato sociale” sempre più privato e sempre meno sociale.
Anziché la sussidiarietà circolare (rapporto attivo tra istituzioni pubbliche e auto-organizzazione popolare autogestionaria e rivendicativa) si è imposta solo la sussidiarietà orizzontale utilizzata per privatizzare i servizi e consegnarli al profitto della Compagnia delle Opere (e in parte della Legacoop).
La stragrande maggioranze delle Camere del Lavoro in termini di servizi si limita a quelli dei CAF. Dei partiti meglio tacere.
Lavoro e movimento operaio
Pino è stato maestro anche nello studiare le trasformazioni del lavoro: sia in senso tecnologico e di organizzazione; sia nel senso delle relazioni e dei rapporti che si instaurano (o si dissolvono) in un luogo di lavoro.
E così dopo aver studiato, fine anni ’70 inizio anni ’80, le profonde trasformazioni indotte dai processi di automazione e robotizzazione delle fabbriche, negli ultimi tempi si è dedicato al problema del venir meno della solidarietà – e quindi della solitudine, dell’isolamento – nei luoghi di lavoro.
Pino attribuisce questa solitudine (che in determinate situazioni porta anche al gesto estremo del suicidio) a due fattori.
Innanzitutto la ristrutturazione della produzione che, grazie alla possibilità del controllo e del comando a distanza garantito dalle tecnologie informatiche, ha permesso di dar vita ai processi di delocalizzazione, decentramento produttivo, polverizzazione dell’unità produttiva in tanti centri di lavoro rappresentati da catene produttive di appalti, subappalti, esternalizzazioni: “dalla caldaia a vapore della prima rivoluzione industriale alla catena di montaggio della seconda rivoluzione industriale, da Manchester a Detroit, si era sempre visto che al massimo di centralizzazione verticale del comando doveva andare di pari passo il massimo di concentrazione di macchine e di lavoratori”. Ma dopo due secoli in cui ha sostanzialmente retto questo modello adesso tutto si rovescia: “La gestione informatizzata dei processi oggi dissocia la cooperazione tecnica dalla coppe razione sociale: il governo tecnico centralizzato dei processi di lavoro e di produzione può andare di pari passo con la disseminazione dei punti di produzione e la dispersione dei lavoratori”.
Si rompono i gruppi omogenei, i nuclei operai si scompongono sul piano tecnico della organizzazione della produzione.
Ma questo non basta a spiegare la solitudine che fa seguito al dissolvimento della solidarietà.
Su questa frantumazione/scomposizione dei gruppi di lavoratori si innesta una nuova pratica manageriale particolarmente aggressiva: quella che punta tutto sull’individualismo o, peggio ancora, sulla messa in concorrenza dei lavoratori di una stessa azienda in termini di produttività e qualità dei risultati.
Attraverso una abile quanto feroce strategia manageriale in grado di combinare minacce e blandizie, punizioni e premi, nei luoghi di lavoro ogni lavoratore si trova ormai solo, in concorrenza con i colleghi (altrochè compagni !) per raggiungere gli obiettivi che la direzione gli ha assegnato per conseguire i premi retributivi promessi.
Il rendimento, pur presente nell’esperienza operaia e inteso come l’orgoglio di saper fare un buon lavoro, perde ogni connotato di identità di classe e diventa un metro di misurazione individuale: nella “nuova fabbrica” ciascuno è solo a dover conseguire i risultati assegnati; mentre nella “vecchia fabbrica” la solidarietà di gruppo, oltre che intermini politici e sindacali, si esprimeva anche nel cooperare nel raggiungimento dei risultati di produzione (le famigerate tabelle).
Nella “vecchia Fabbrica”, la solidarietà di classe, oltre all’elemento cooperativo di reciproco sostegno, consentiva anche al movimento operaio di organizzare forme collettivo di controllo dell’organizzazione del lavoro, dei tempi, dei ritmi, degli obiettivi assegnati. Dal controllo operaio di questi aspetti derivano importanti esperienze di contrattazione e di concreti risultati conseguiti, ad esempio, sui cottimi, sulle nocività, sui tempi.
Adesso non si contratta più niente, se non – in termini strettamente individualistici – l’ammontare del premio elargito dall’azienda per il conseguimento – individuale – degli obiettivi.
Ed è per questo che dalle prime inchieste condotte in Francia vien fuori un quadro agghiacciante: gli operai sembrano rimpiangere le cattive condizioni di lavoro della fase fordista nonostante , oggi, la riorganizzazione di fabbrica abbia eliminato le operazioni più faticose, pericolose e degradanti.
Dalle interviste dei lavoratori francesi viene fuori che un tempo in fabbrica ci si parlava, ci si aiutava vicendevolmente per rendere il lavoro meno faticoso, per superare assieme le difficoltà, sia quelle dovute al confronto/scontro con la proprietà, sia quelle della quotidianità della produzione.
Adesso è tutto cambiato: “oggi non c’è più solidarietà, calore, aiuto reciproco. Ognuno è nel proprio angolo, pensa solo a se stesso, c’è concorrenza, non si stringono più le mani”.
Ed è questa solitudine, immersa nella corsa alla produttività e alla concorrenza spietata, ad essere alla base dello stillicidio di suicidi che ha investito alcune tra le principali aziende francesi.
Nello scritto “Francia: suicidi sul posto di lavoro di lavoratori altamente qualificati”, Ferrarsi mette in luce i casi di France Télécom, della Renault, dell’impianto siderurgico Arcelor Mittal, della centrale nucleare di Chinon.
Tutti suicidi consumati in modo drammatico sul luogo di lavoro, mentre quando avvengo fuori vengono lasciate lettere di denuncia delle insopportabili condizioni di lavoro.
Ad essere sotto accusa è una organizzazione del lavoro che ha distrutto il collettivo, la cooperazione e la solidarietà: i lavoratori sono soli, obbligati ad accettare gli obiettivi impossibili imposti loro dai manager. Non c’è discussione né contrattazione proprio perché non esiste nessun collettivo in grado di discutere al proprio interno e poi di negoziare con la controparte.
La famigerata “valutazione individuale” è il nuovo incubo che ha sostituito la catena; lo stress e l’ansia per il raggiungimento degli obiettivi funzionano meglio dei cronometristi; il demansionamento o lo spostamento insedi scomode e periferiche hanno rimpiazzato i vecchi “reparti confino”.
A sconcertare Pino è la mancanza di risposte ai suicidi in France Télécom da parte di dipendenti e sindacati: non si proclamano scioperi, mentre l’unica iniziativa assunta dal sindacato CGC – l’osservatorio sullo stress e la mobilità forzata – viene stroncata dall’azienda che obbliga anche alle dimissioni ben 20 medici aziendali.
Le due facce di una stessa medaglia: da un parte i suicidi, la spia più drammatica della crisi di una organizzazione del lavoro che dequalifica l’insieme dei lavoratori, che instaura rapporti di forza unilaterali, che impone obiettivi individuali e controlli informatici più penetranti. Dall’altra l’impotenza dei lavoratori, l’incapacità di mettere in discussione la questione del potere
Una situazione drammatica viene riscontrato nel “caso Mermot”, una piccola cittadina francese che ospita una fabbrica di produzione di sistemi elettronici e informatici di controllo del volo e della navigazione: una produzione qualificata con tecnici e operai di alto livello.
La “svolta gestionaria” degli anni 80, imposta dal nuovo e aggressivo management provoca una ondata di suicidi: la ristrutturazione dei gruppi stabili di mestiere ha conseguenze laceranti sul tessuto umano travolgendo abitudini professionali consolidate, la cultura del lavoro, l’aiuto reciproco e la trasmissione del saper fare. Un gruppo di 12 operai, assistiti da psicologa del lavoro, produce una inchiesta.
“Senza la solidarietà del gruppo professionale il rapporto con l’organizzazione diventa individuale e quindi assolutamente dipendente. Ma l’organizzazione tecnica senza la cooperazione sociale va a pezzi”. Anche a Mermot, “mentre nel passato operavano strategie di difesa collettive contro le difficoltà personali sul lavoro”, oggi “non c’è il minimo indizio di una mobilitazione collettiva”.
Ed è proprio alla questione del potere in fabbrica e alla costruzione di strumenti di partecipazione e azione operaia che Pino ha dedicato una parte estremamente consistente dei suoi studi e del suo lavoro politico.
Pino è dirigente della sinistra socialista nel Biellese (poi sarà segretario torinese dello PSIUP) quando nasce si diffonde l’esperienza dei giornali di fabbrica di cui parla nel fascicolo 5 dei Quaderni Rossi (“Giornali politici nelle fabbriche del Biellese”).
Pino precisa con grande chiarezza che non si trattava di giornali per gli operai, ma “strumenti nati all’interno di una realtà di lotta di classe…Niente è più difficile del dare organizzazione, consistenza politica ad una redazione operaia in fabbrica, dello sforzo di creare, con l’occasione del giornale operaio, una cellula viva, un centro autonomo, unitario e organizzato e cosciente di azione e lotta politica di classe nella fabbrica…”.
Non è un caso che il giornale di fabbrica nel Biellese nasca proprio con la riorganizzazione del lavoro (razionalizzazione) introdotta per primo da Zegna: “il capitalismo laniero introduce nella fabbrica la programmazione (…) riproporzionalizza le macchine, regola il flusso, assegna i metodi e i tempi agli operai.(…) Di una cosa è certo l’operaio: non è più come prima, il processo di lavoro non sarà più una specie di mediazione (…) le linee sulle quali dovrà camminare l’operaio sono predeterminate, non si discutono, non si può derogare da esse; tutto ciò non può essere oggetto di contrattazione: è fatale, è “legge obiettiva”, è supremo imperativo della “Tecnica”.”.
Il richiamo a Raniero Panzieri (“Sull’uso capitalistico della macchine nel neocapitalismo” – fascicolo 1 dei Quaderni Rossi) è evidente: il dinamismo tecnologico – organizzativo dell’impresa capitalistica non è “neutrale”. Anzi: la “razionalità tecnologica”, le macchine e la nuova organizzazione del lavoro sono incorporati nel capitale ed esprimono i rapporti di classe del sistema di produzione capitalistico e ne sono direttamente plasmati.
E proprio per questo è nei luoghi della produzione (“laddove è la fonte reale del potere”) che il proletariato deve costruire i propri istituti: di nuovo Panzieri (e Libertini), questa volta con le “Sette tesi sul controllo operaio” (“la forza reale del movimento di classe si misura si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione”).
Per Panzieri e Libertini lo sviluppo della fabbrica moderna, con le nuove tecnologie, le macchine e l’organizzazione del lavoro, mira ad asservire completamente il lavoratore al padrone: l’unico modo per rompere questo tentativo è quello di prendere coscienza della situazione contrapponendo alla “democrazia aziendale” di marca padronale la rivendicazione della democrazia operaia.
Sulla scia di Panzieri, Pino si pone il problema della costruzione di nuovi organismi, dei nuovi istituti della democrazia operaia che unificano economia e politica che, come tali, mettono in discussione il ruolo tradizionale del partito e del sindacato.
Da qui l’interesse di Pino per i delegati: possibili embrioni di una “terza dimensione della politica” basata sui movimenti di massa e quindi in grado di rinnovare il sindacalismo economico e mettere in discussione la forma del partito burocratico parlamentare.
Ferrarsi riprende gli studi di Ida Regalia sui delegati operai alla FIAT: “i gruppi di intervento del PSIUP – scriveva la Regalia – si pongono con notevole lucidità la questione organizzativa: l’intento è quello di promuovere cioè che viene definita una “auto-organizzazione operaia in grado di dirigere l’azione di classe che sia autonoma e permanente”.
Nel 1969 la figura del delegato operaio di reparto – rappresentante del gruppo operaio, eletto su scheda bianca e revocabile in ogni momento da chi lo ha eletto – attiva un meccanismo di “democrazia di mandato” che riduce al minimo la distanza tra partecipazione diretta e delega.
Pino rigetta le analisi di Pizzorno (secondo il quale l’esperienza dei consigli risponde ad una logica del sindacato di ripresa del controllo delle vertenze di fabbrica e del protagonismo operaio) e assume la lettura di Romagnoli: il movimento dei delegati si inserisce nella più ampia politicizzazione del sociale con l’emergere di strutture associative della solidarietà in contrasto con le strutture gerarchiche di dominio.
Ferraris afferma che la mobilitazione operaia esprime “il momento più alto della sua creatività e della sua originalità istituente di massa con la nascita dei delegati e dei consigli di fabbrica. Si possono vedere in essi quegli “istituti di nuova democrazia sindacale autogestionaria” che indicava Panzieri nelle tesi sul controllo operaio”.
Nella critica radicale della “divisione del lavoro” tra sindacato economico e partito politico parlamentare, nello sviluppo dell’esperienza dei delegati e dei consigli, Ferraris intravede la possibilità di far avanzare la linea del “Movimento politico di massa”.
Documenti preziosi di questa esperienza, più volte citati da Pino, sono “L’appello dei delegati delle ausiliarie” del 1969 – che definisce il ruolo delle assemblee, la figura del delegato di gruppo omogeneo, i requisiti di potere di assemblee e delegati e avanza la proposta di riunire un Consiglio dei delegati operai della FIAT – e il libro, sempre dello stesso anno, “Per un movimento politico di massa. Raccolta di documenti della lotta di classe e del lavoro politico alla FIAT”.
Ma la linea del “movimento politico di massa”, dell’auto-organizzazione operaia sulla base di assemblee, delegati di squadra e consiglio dei delegati, si trova schiacciata all’interno di una morsa: da una parte il tentativo di istituzionalizzare i delegati attraverso la figura degli “esperti di linea”; dall’altra l’estremismo inconcludente del “siamo tutti delegati”.
Tuttavia, insiste, Pino “o si prosegue lungo una linea di massa anti-autoritaria ed auto-gestionale, oppure si ripega fatalmente dentro una logica della circolazione delle élites al potere”.
La sfida dell’apertura di quella che Pino chiamava “terza dimensione” (a quel tempo terza rispetto al ruolo di partito e sindacato), cioè la prospettiva e la realtà dei “movimenti politici di massa” dovrebbe essere al centro dell’attuale lavoro della sinistra politica.