La data del 5 gennaio ci ricorda il 1984 e l’assassinio mafioso di Giuseppe Fava, cui seguì il 12 dicembre del 1984 il blitz della Procura di Torino, con gli arresti eccellenti di uomini dello stato e di svariate figure della criminalità organizzata. Esplose così il Caso Catania: la storia di un prolungato dominio sulla città dell’imprenditoria mafiosa, riferimento e guida del blocco sociale che si era andato costruendo, dai primi anni Sessanta, attorno alle accumulazioni affaristiche e ai suoi rapporti con i gruppi vincenti di Cosa nostra etnea.

Forte di una impunità garantita da magistrati, funzionari dello Stato e settori di vertice della Chiesa cattolica, il blocco di potere nato in quegli anni è stato capace di costruire relazioni strutturali con quegli ambienti economici e politici in grado di indirizzare, in Sicilia e non solo, rilevanti flussi di finanziamenti nazionali ed esteri, per destinarli alla realizzazione, in una prima fase, alle grandi opere pubbliche e, successivamente, di investirli anche sulla realizzazione di numerosi Centri commerciali. Un intreccio tra accumulazione criminale e rendita parassitaria, che ha stravolto l’assetto urbanistico della città ed ipotecato negativamente il modello di sviluppo ed il suo futuro: con una continuità sconvolgente, nella quale di volta in volta sono mutati gli attori principali, mai il sistema. Prima i quattro cavalieri dell’Apocalisse (Costanzo, Finocchiaro, Graci, Rendo) e poi Virlinzi e Ciancio, per citare i nomi più noti. Una lunga sequenza di varianti urbanistiche, di cementificazioni e di devastazioni ambientali: ora per impossessarsi dell’accesso al mare, ora per un piano parcheggi e della mobilità non degno di una città come Catania, ora per l’espansione dell’aeroporto in barba a qualsiasi rispetto idrogeologico, ora per la realizzazione di un Piano Urbanistico che ha portato all’ultima scandalosa variante speculativa, approvata dalla coalizione di Bianco, per l’ennesimo favore a Mario Ciancio. Un gruppo di potere che nel tempo è arrivato a controllare anche il settore dei rifiuti (con relative discariche) e della sanità, favorito dalla privatizzazione dei servizi pubblici (anche per il tramite delle convenzioni e dei processi di aziendalizzazione, fino alla chiusura suicida e omicida della medicina territoriale).

Il Caso Catania, a differenza di quanto avvenuto a Palermo, non è chiuso.

Esso è imperniato sulla longevità della centralità di Cosa Nostra catanese rappresentata dal gruppo economico-finanziario Santapaola-Ercolano, a cui i “devoti di Santa-Paola” più che a Sant’Agata, debbono il livello di benessere con le loro attività illegali e legali, sempre meno caratterizzate dall’uso esplicito e sanguinoso della violenza. Un gruppo oggi largamente dominante nei diversi settori dell’economia della città: dalla ristorazione al movimento terra, dalle forniture farmaceutiche alle diverse attività del terziario. Come è stato possibile che ciò avvenisse? Perché l’azione di contrasto di alcuni settori della magistratura, anche se non ha mai avuto la forza di colpire adeguatamente i vertici delle élite politiche e delle classi dirigenti, non è stata decisiva per determinare una svolta, un reale cambiamento?

Sicuramente hanno giocato un ruolo determinante, potremmo definirlo “costituente”, il monopolio dell’informazione e la linea editoriale dei giornali locali, nella costruzione del consenso a questo modello e alla sua rappresentanza nelle istituzioni, sia nella variante “progressista” e di centrosinistra sia in quella centrista e della destra fascista. Con la complicità della stampa nazionale, gruppo Repubblica in primis. Con comportamenti e scelte che hanno garantito copertura ideologica e legittimazione dei criminali all’interno delle classi dirigenti catanesi. Il monopolio dell’informazione e la sua gestione hanno assunto le forme di un vero e proprio super-partito della borghesia mafiosa nella promozione delle élite politiche, nella determinazione dei bilanci, nel governo del territorio, nella destinazione delle risorse, rivolte ai comitati d’affari a discapito delle periferie e della loro fruizione collettiva, attraverso campagne mirate di stabilizzazione del quadro degli interessi consolidati o in via di costituzione. Un dato che mette in discussione la narrazione, mai pienamente sconfessata, di Cosa Nostra catanese quale fattore di stasi economica di Catania e del Mezzogiorno, laddove invece essa è stata parte attiva della modernità regressiva del Caso Catania: la modernità del metodo mafioso, come capacità dell’accumulazione economica e criminale di influire nel tessuto vivo della cosiddetta società civile e dell’economia, sviluppando ed evolvendo le vecchie relazioni politiche, sociali e finanziarie, ben al di là degli insediamenti storici e fisici di nascita (mai comunque abbandonati). Fino ad arrivare al controllo degli snodi fondamentali del ciclo dei rifiuti, e alla conquista degli spazi offerti dalle politiche liberiste di privatizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni. E alla scoperta di una nuova e vera vocazione (im)prenditoriale nell’economia legale che si esprime nella connessione, collusione e complicità con i protagonisti dell’“area grigia”: (im)prenditori, professionisti, baroni dell’università, politici, burocrazia, che offrono risorse e rapporti fondamentali per il reciproco successo economico.

L’economia legale non scaccia quella illegale e criminale, come molti professionisti/santoni dell’Antimafia ufficiale hanno cercato di far credere (la Sicindustria di Lo Bello-Montante, il Pd di Crocetta e Lumia, le tante realtà associative convertite alla retorica dell’antimafia da parata). Al contrario, l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato una quotidiana compatibilità e un reciproco adattamento: l’accumulazione criminale non è stata e non è un “mondo a parte” ma un fattore intrinseco del mercato capitalistico, dei mercati globalizzati e delle politiche liberiste. È evidente come la mancata regolazione/correzione del mercato da parte dello Stato, delle istituzioni pubbliche, delle politiche attive di sviluppo e lavoro lasci vuoti nella società che la borghesia mafiosa tende a colmare.

L’altra faccia della medaglia è l’antimafia come strumento politico, come rete di potere, carriera, autolegittimazione, impunità sociale che ha coinvolto sia i gruppi dirigenti sia i movimenti della società civile legati alle reciproche legittimità istituzionali e alla rincorsa dei beni confiscati, che le denunce delle ultime settimane hanno rivelato essere un grande bluff. Né possiamo occultare le responsabilità e le sponde complici offerte dalle confederazioni sindacali, con il pieno sostegno alle peggiori varianti urbanistiche (il Pua e non solo) e con la partecipazione diretta di loro esponenti nel governo della città.

Dal Patto tra i produttori, al Patto per Catania, alla legittimazione di Sicindustria e dei suoi vertici, a Catania come a Siracusa Palermo e Messina, dentro questi percorsi e nei fallimenti delle alleanze neocorporative, si è consumata la grande sconfitta dei diritti e dei bisogni collettivi della città.

E questo quadro ci dice che il Caso Catania non è morto, anzi. E allora, che fare?

Occorre prendere atto amaramente delle difficoltà del movimento antimafia, dei suoi silenzi, della sua frammentazione. Bisogna avere il coraggio di rifiutarsi di accondiscendere in maniera subalterna alla reiterazione gattopardesca dei riti istituzionali spesso accompagnati dalla retorica tossica e rassicurante degli inni nazionali, come è purtroppo avvenuto il 5 gennaio del 2020. Oggi più che mai, nello sviluppo della denuncia e dell’inchiesta, nella organizzazione delle lotte per i diritti e i bisogni, nella valorizzazione delle pratiche mutualistiche e di solidarietà dell’antimafia sociale, avendo rispetto e riconoscimento delle specificità delle diverse esperienze, occorre promuovere una riunificazione dal basso del conflitto e dei suoi soggetti sociali, una unità antimafiosa, proletaria e ambientalista, femminista e autenticamente democratica (nel senso della attuazione della Costituzione).

Mario Pugliese, esecutivo circolo G. Centineo

Mimmo Cosentino, segretario regionale Prc Sicilia