di Francesco Forgione

In tanti e tante saremo a Cinisi oggi, per ricordare, a trent’anni dal suo omicidio, Peppino Impastato. Cammineremo da Radio Aut, la sua radio libera e disobbediente, fino alla sua casa, dove per anni, alla fine di ogni corteo, ci ha accolti il sorriso fiero di Felicia, la mamma di Peppino, protagonista di una straordinaria battaglia per avere verità e giustizia sull’omicidio, scomparsa, come se ormai la sua missione di vita fosse esaurita, poche settimane dopo la morte di Tano Badalamenti, il boss di Cinisi che ne ordinò l’omicidio e per questo, dopo oltre vent’anni, fu condannato dal tribunale di Palermo.

Parlo di Felicia, della sua tenacia e della sua forza -lei minutissima- nel condurre anni e anni di battaglie in una realtà mafiosa come Cinisi, dove alle madri, alle vedove, ai famigliari delle vittime della mafia è concesso solo di portare il lutto, chiuse nel proprio dolore e nel proprio silenzio. E invece Felicia, di quel lutto portava solo il nero di donna del sud, tanto è stato il suo impegno a lottare con i compagni di Peppino, con il Centro Impastato, con Giovanni e Felicetta, per rompere ogni omertà, spronare la magistratura, denunciare depistaggi, continuare a fare vivere Peppino nell’impegno antimafia di tanti giovani e militanti della sinistra.

Anche negli anni del gelo, quando il 9 maggio a Cinisi ci ritrovavamo in qualche decina, non mancava il suo coraggio e la sua voglia di lottare. Si, perché tante volte, in tanti anniversari, siamo stati davvero in pochi.
Del resto, la vita e la morte di Peppino, hanno avuto poco di ufficiale. Non era un uomo delle istituzioni, non era un “politico”, non era uno da commemorazioni e inni nazionali.

Radio Aut fu una delle prime radio libere in Italia e Peppino capì il valore dell’uso della parola, della comunicazione, della controinformazione in una realtà costruita sul silenzio sociale e sull’omertà. Qualche anno prima, quando ancora le radio libere non erano comparse sulla scena dell’informazione, Peppino ne aveva visto nascere una, rudimentale, si poteva ascoltare solo nel raggio di poche centinaia di metri e la sua esistenza, brevissima, rappresentava già un fatto rivoluzionario: era la “radio dei poveri Cristi”, creata a Partitico, a pochi chilometri dalla sua Cinisi, da Danilo Dolci. E proprio con lui, sociologo triestino che aveva scelto la Sicilia per trasferirvi il suo impegno, Peppino incontra il valore e la pratica della nonviolenza attraverso quel lavoro che, anche grazie a Danilo Dolci, prima e dopo il terremoto del Belice, farà di donne e uomini senza storia i protagonisti di straordinarie lotte contro la mafia, per l’acqua, per il lavoro. E’ una straordinaria stagione di lotte che rigenerano anche il ruolo e il radicamento delle organizzazioni storiche della sinistra e del movimento operaio.

Da Radio Aut, anni dopo, nella fase del compromesso storico e della palude siciliana del potere politico -mafioso, il sistema veniva combattuto, i mafiosi beffeggiati col loro nome e cognome, i politici collusi smascherati. Il Consiglio e l’amministrazione comunale Dc-Pci di Cinisi, descritti come il “Gran consiglio della tribù”, il cui capo non era il sindaco, ma “don Tano Seduto”, quel Tano Badalamenti che, allora capo della cupola mafiosa di Cosa Nostra, prima dell’avvento dei corleonesi di Riina e Provenzano, tutto poteva tollerare tranne che essere irriso pubblicamente.

Peppino viola tutte le “regole”, rompe tutti i codici, comincia dalla sua famiglia, famiglia di mafia: come si dice in Sicilia, “è sangue pazzo”. Credo sia proprio questa la lezione più grande che ci lascia: il coraggio e la forza di rompere con culture e valori radicati, la ribellione ad ogni forma di familismo amorale e mafioso, collante ancora diffuso di una egemonia culturale che in tanta parte del Sud consente alle mafie di rigenerare potere e consenso. Nel suo ribellarsi e nella continua ricerca di una autonomia culturale e politica di linguaggi, in un contesto in cui anche la sinistra ufficiale era spesso silente e subalterna al blocco di potere dominante, c’è tutto il suo essere figlio del sessantotto e di quella straordinaria stagione sociale, politica, culturale che tanto ha influito anche nella Sicilia di quegli anni. Rifiuta ogni compatibilià di quel suo mondo, e di quella realtà. E forse sa anche di dover morire, quando, negli ultimi giorni della sua vita, candidato nelle liste di Democrazia Proletaria, addita pubblicamente Badalamenti come trafficante di armi e di droga. Quasi un’auto-condanna nella Sicilia muta di quegli anni.

Ma era la sua libertà a muoverne le scelte e l’impegno, non la sua incoscienza.
Per tutto questo, dopo trent’anni, Peppino Impastato continua ad indicarci una strada, diverse da altre, di impegno sociale e di lotta contro la mafia.

Nell’anno e mezzo vissuto da presidente della Commissione parlamentare antimafia, ho incontrato decine e decine di scuole, università, gruppi di volontariato, in una straordinaria esperienza di conoscenza e di ascolto. La cosa che più mi ha colpito è come e quanto Peppino sia diventato un esempio e, perché no?, un simbolo per migliaia e migliaia di giovani e di ragazzi e per una nuova generazione militante. E così scopri che nelle scuole medie di Reggio Emilia o nel liceo di Napoli, nell’istituto gestito dalle suore in Toscana come all’università di Torino o a quella di Bari, e persino in alcune scuole elementari, centinaia e centinaia di giovani e giovanissimi o hanno visto il film o fatto la tesi e poi il seminario o il dibattito su Peppino Impastato e la sua antimafia e scopri anche quanto questi ragazzi conoscano e si sentano amici di Giovanni e Felicetta che da anni girano l’Italia parlando di antimafia sociale.

E’ il lavoro che tocca anche a noi che vogliamo continuare a batterci, nonostante i tempi inclementi e tempestosi, per un’alternatica radicale e di società.

Sappiamo che la mafia, negli anni del liberismo e della globalizzazione, è diventata uno dei soggetti e dei fattori più dinamici del processo di modernizzazione capitalistica che ha trasformato il paesaggio sociale e produttivo della Sicilia e del Mezzogiorno, costruendo attorno a se un vero e proprio blocco sociale, organico e funzionale al sistema di potere dominante. Per questo l’antimafia non può vivere di ecumenismi, deve rappresentare una chiave di lettura critica della realtà e recuperare una grande dimensione sociale. Occorre un cuore nella nuova stagione della lotta alla mafia, se se ne vuole aggredire la natura e l’essenza di grande holding economico-finanziaria criminale: colpire i patrimoni, i capitali, le ricchezze e la sua capacità di accumulazione e di gestione dei grandi flussi finanziari.

In fondo la lezione di Peppino Impastato è tutta qui, nel comprendere che la lotta contro la mafia non può vivere dentro l’esclusiva dimensione repressiva e giudiziaria, ma deve mettere in discussione interessi materiali, strutture politiche, assetti del potere, codici culturali e sociali. Deve essere protagonismo diretto, diffuso e di massa, indignazione e ribellione e, sopratutto, ricerca continua di “un altro mondo possibile”. Perché se, lui come urlava dai microfoni di Radio Aut, “la mafia è una montagna di merda”, una società, una politica, un sistema di imprese, istituzioni e partiti, che la tollerano e se ne fanno imbrattare non possono in alcun modo appartenerci.

Nota: da rifondazione.it