Con il Documento economico finanziario (DEF) dello scorso aprile, il Governo Renzi ha pianificato lo strangolamento della sanità pubblica. Sui 2.637 miliardi di tagli previsti, 2.352 miliardi verranno tolti al sistema sanitario mentre 285 milioni saranno tagliati all’edilizia sanitaria. Per andare sempre più verso un sistema pubblico povero per i poveri e un sistema privato per chi può pagare. E la Regione Toscana spinge per ancora maggiori tagli e accorpamenti delle strutture pubbliche.

di Beatrice Bardelli su lacittafutura.it

Il diritto alla salute? Non è più un “fondamentale diritto dell’individuo” né tantomeno “interesse della collettività” come recita (ancora per quanto?) l’articolo 32 della Costituzione. In Italia l’attacco generalizzato ai diritti sociali prevede anche lo smantellamento dei servizi pubblici e del Servizio sanitario nazionale in particolare. Nonostante prestigiosi istituti internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità continuino a ripetere l’ormai abusato refrain che la sanità italiana è una delle più virtuose al mondo per quanto riguarda la spesa ed i risultati eccellenti raggiunti, la realtà di oggi, quella che i cittadini vivono quotidianamente sulla propria pelle, è ben diversa. Gli ultimi tre governi che si sono succeduti dal 2011 con la sola benedizione di Re Giorgio hanno condiviso l’obiettivo di colpire, per esigenze di risparmio e/o di risanamento finanziario della spesa pubblica, il settore più importante di uno stato che si voglia definire “sociale”, quello della prevenzione e dell’assistenza sanitaria. Attraverso due scelte radicali: la riduzione delle risorse da erogare in campo sanitario – tanto che l’Italia ha attualmente una delle più basse spese sul PIL rispetto a molti altri paesi europei ugualmente colpiti dalla crisi economica – e l’avvio di processi di privatizzazione di interi pezzi di livelli essenziali che stanno determinando il progressivo abbandono del carattere universale e pubblico del nostro Sistema sanitario nazionale.

L’OCSE bacchetta l’Italia.

Se n’è accorta anche l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi che è stata istituita con Convenzione internazionale nel 1960 ed è stata firmata, ad oggi, da 34 Paesi di tutto il mondo: Australia, Austria, Belgio, Canada, Cile, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Islanda, Israele, Italia, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica di Corea, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. Nel suo rapporto 2015 (“Revisione sulla qualità dell’assistenza sanitaria in Italia), l’OCSE annota come criticità per il nostro paese il fatto che “il miglioramento della qualità e la riorganizzazione del sistema hanno assunto un ruolo secondario quando la crisi economica ha iniziato a colpire” mentre “il risanamento delle finanze è divenuto priorità assoluta, nonostante i bisogni in fatto di salute evolvano rapidamente”. Bisogni che l’OCSE specifica: “gli indicatori relativi a demenza, numero di anni di vita in buona salute e limitazioni nelle attività quotidiane dopo i 65 anni sono peggiori rispetto alle medie OCSE e il tasso di bambini in sovrappeso è tra i più alti nell’area OCSE”. Inoltre, avverte l’OCSE, l’Italia “deve confrontarsi con un crescente invecchiamento della popolazione ed un aumentato carico delle patologie croniche” ma attualmente il “progresso verso un modello di sistema sanitario in cui la prevenzione e la gestione di tali patologie siano in primo piano è piuttosto lento; i servizi per l’assistenza di comunità, a lungo termine e di prevenzione sono poco sviluppati rispetto agli altri paesi OCSE”. Infatti, si legge ancora nel rapporto: “l’Italia spende meno di un decimo di quanto spendono Olanda e Germania per la prevenzione e presenta la più bassa percentuale di operatori per l’assistenza a lungo termine osservabile nei Paesi dell’OCSE, in rapporto alla popolazione con 65 anni di età e oltre”.

La sanità in Italia: vittima sacrificale.

Questo scriveva l’OCSE il 15 gennaio 2015. Ma il governo Renzi ha fatto orecchio da mercante e, nell’aprile scorso, ci ha sfornato il Def (documento di economia e finanza) 2015- 2018 sul contenimento della spesa che strangola letteralmente la sanità. Infatti sui 2,637 miliardi di tagli previsti a partire da quest’anno, 2,352 miliardi andranno a colpire il sistema sanitario mentre 285 milioni saranno tagliati all’edilizia sanitaria. L’accordo ufficiale sui tagli alla sanità è arrivato, tuttavia, solo il 2 luglio scorso dopo mesi di discussioni in conferenza Stato-Regioni che ha visto la contrarietà di 3 Regioni, Veneto, Lombardia e Liguria. La cosa aberrante è che questi tagli sono stati decisi con una intesa Stato-Regioni all’indomani di un Patto Governo-Regioni che aveva sancito addirittura il rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale. In pratica, quasi tutte le Regioni hanno deciso di rispondere alla generica richiesta di Renzi di un contributo di alcuni miliardi (le Regioni erano libere di decidere dove e come ricavarli) tagliando testa e gambe alla sanità. Che è stato l’unico capitolo di spesa ad essere toccato. Anzi, massacrato. E con i tagli alla sanità sono stati massacrati i sacrosanti diritti dei cittadini ad avere un’assistenza sanitaria equa, efficace ed appropriata. E non si può sentir dire che la sanità non poteva non essere toccata perché da sola copre il 70% delle spese regionali! La salute non è una commodity, non si scambia come merce sui mercati finanziari. Lo ribadiamo con forza: la salute è un diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. “Quello che lascia veramente perplessi – ha sottolineato Cesare Fassari, direttore di Quotidiano sanità, il giornale online leader del settore (http://www.quotidianosanita.it) – è che nessuna delle voci di ‘risparmio’ riguarda altri capitoli di spesa delle Regioni. Non si parla di stipendi dei consiglieri (in tutto quasi un miliardo l’anno), di consulenze esterne (in tutto 800 milioni l’anno), di trasferimenti alle varie ‘aziende regionalizzate, provincializzate, municipalizzate e consortili’, alle quali vanno ogni anno più di 3,2 miliardi di euro. Nulla sulla spesa di beni e servizi non sanitari, che raggiunge la ragguardevole cifra di 6 miliardi l’anno (bilanci Regioni-Istat 2014)”. Tuttavia per il ministro alla Sanità Lorenzin, l’accordo sui tagli di 2,35 miliardi di euro al fondo sanitario 2015 è un gran successo. Ma con questi tagli, avvertono da più parti, ci si avvicina alla soglia del 6,5% di incidenza della spesa sanitaria sul Pil. Sotto questo livello si riduce l’aspettativa di vita della popolazione. “L’importante è avere chiaro questo punto – ha detto Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori finanziari in Conferenza Regioni – la Grecia ha già visto aumentare la mortalità infantile a causa dei tagli”.

E dopo i “tagli lineari”, un altro colpo di mannaia: gli “standard ospedalieri” che mettono a rischio la vita stessa degli italiani.

Dallo scorso 19 giugno, infatti, è in vigore il Regolamento sugli standard qualitativi negli ospedali, previsto dalla spending review del 2012 (L. 135), che impone alle Regioni di ridurre i posti letto ospedalieri a carico del Servizio sanitario regionale ad un livello “non superiore” a 3,7 posti letto ogni 1.000 abitanti. Una perdita secca di 3.000 posti letto secondo fonti ministeriali, 10.000 secondo i più realistici dati della CGIL. Un colpo decisamente mortale per l’assistenza ai cittadini. Un vero “colpo al cuore” per le strutture cardiologiche degli ospedali di tutta Italia. L’allarme è stato lanciato dai cardiologi dell’Anmco (Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri) riunitisi a Milano ai primi di giugno per il loro 46° congresso. Con il nuovo provvedimento, infatti, “le strutture cardiologiche italiane si ridurranno di due terzi e la salute del cuore degli italiani ne risentirà pericolosamente – ha detto il presidente dell’Anmco, Michele Gulizia, ricordando che in 50 anni l’eccellenza cardiologica italiana ha salvato oltre 750.000 persone fulminate da infarto. Il Regolamento prevede una drastica riduzione delle strutture di Cardiologia (da 823 a 242), delle Unità di terapia intensiva coronarica (da 402 a 242), dei Laboratori di Cardiologia interventistica (da 249 a 121) oltre al taglio del 43% dei posti letto in cardiologia (da 8.534 a 4.844). “Cosa ancora più grave – ha denunciato Gulizia – se si considera che le Cardiologie spariscono soprattutto dagli ospedali con pronto soccorso”.

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