rm0511-pol01-7Intervista al segretario del PRC di Frida Nacinovich
Diluvia sul sistema finanziario internazionale, diluvia anche sul belepaese. Al terzo piano di viale del Policlinico le finestre sono aperte, fanno uscire una nuvoletta di fumo. Una boccata di sigaro al davanzale e il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, fa il punto della situazione. «Lo sbocco politico? Lo sviluppo del movimento». Dall’inizio di ottobre sembra che l’Italia si sia svegliata dal torpore post elettorale: manifestazioni su manifestazioni, molto partecipate, donne e uomini di tutte le età scesi in piazza. Poi la Cgil, che prende le distanze dalla Cisl e dalla Uil sulla “riforma” del modello contrattuale.
E ancora, all’interno delle categorie del maggior sindacato italiano, ci sono da registrare le mancate firme del Commercio e del Pubblico impiego sui contratti. Mentre la Fiom ha deciso uno sciopero per il prossimo dicembre. Carne al fuoco ce n’è parecchia. Con un occhio inevitabilmente alle elezioni presidenziali americane e l’altro sempre fisso sugli sviluppi della politica italiana, Ferrero risponde alle nostre domande.
Prima domanda: la Cgil batte un colpo, e le forze della sinistra?
Le dimensioni della crisi che attraversa il paese spingono la Cgil a fare una scelta netta: o con il governo o con i lavoratori. La Cisl è passata dall’altra parte, la Cgil no. Ma la crisi di questo modello di sviluppo impone anche alla sinistra di avere un progetto. Averlo è una necessità.
Questa sinistra è all’altezza della sfida che viene imposta dalla realtà dei fatti?
Non siamo all’altezza, ma qualche idea ce l’abbiamo. La prima questione è quella di generalizzare il conflitto. Andare oltre la lotta del commercio, del pubblico impiego, dei metalmeccanici, per arrivare al più presto a uno sciopero generale. Penso che le lotte dei lavoratori dovrebbero intrecciarsi, fondersi con il movimento di studenti, insegnanti, genitori.
Stai segnalando con semplicità, con naturalezza, uno scenario che non è scontato.
Queste lotte hanno molti punti d’incontro. C’è un minimo comun denominatore che è l’insicurezza nel futuro, la precarietà sempre più diffusa, i pochi soldi e il senso di subire un’ingiustizia profonda. Non è poco.
Gli studenti di tutta italia gridano in coro: “Noi la crisi non la paghiamo”. Uno slogan che rende perfettamente l’idea, che apre uno scontro generazionale, che si sta allargando anche ai fratelli maggiori precari della ricerca, della didattica, del lavoro.
I movimenti di lotta sono riusciti a centrare la questione. Proprio “per non pagare la vostra crisi” bisogna costruire uno sciopero generale e una mobilitazione di massa. Lo slogan degli studenti parla ai diversi soggetti, alle diverse vertenze, socializza i disagi di tutti quelli che protestano.
La crisi vista dai media è l’altalena delle borse, il bollettino di piazza affari, solo nei tagli bassi l’effetto diretto sul mondo del lavoro con il continuo aumento della cassa integrazione e della mobilità, trova qualche spazio.
La crisi che fa notizia è l’altalena delle borse. Ma il dato vero è un altro: su una situazione già di per sé molto difficile – le famiglie non arrivano in fondo al mese e i rapporti di lavoro sono sempre più precari – si abbatte la batosta della recessione e dei licenziamenti. Di più, oggi il terreno è quello delle grandi fabbriche ma soprattutto delle piccole e piccolissime realtà produttive che non godono neppure degli ammortizzatori sociali. Le cifre ufficiali già parlano di 200mila licenziamenti.
In ottobre sono scese in piazza le opposizioni, i sindacati confederali, il sindacalismo di base, studenti, insegnanti e genitori…
Ma c’è anche chi ancora non ha manifestato, chi è rimasto a casa. Penso ai nuovi disoccupati, a quella parte della popolazione emarginata, dagli anziani ai migranti senza un permesso di soggiorno regolare, spinti dalla destra a guerre fra poveri che mettono in luce le peggiori pulsioni di questo paese. Ecco perché si è detto di sospendere la Bossi-Fini. Quando dico intrecciare le proteste penso a mettere insieme gli ultimi ai penultimi. Chi rischia il posto a chi già è stato licenziato, a chi un posto di lavoro non l’ha mai avuto.
Generalizzazione del conflitto su una piattaforma di sinistra. Non sarà chiedere troppo?
Penso ad una piattaforma comune che non sia solo difensiva, basata su due aspetti. In primo luogo la difesa dei redditi: in questa situazione aumentare gli stipendi, le pensioni e bloccare i mutui non è più sufficiente. Sto dicendo che serve una generalizzazione degli ammortizzatori sociali, che va rivendicato il salario sociale.
Dicono che la crisi potrebbe durare due lunghi anni.
Prendiamolo per buono. Bisogna far sì che in questi due anni le persone possano mangiare e mantenere la casa. Chi non è così fortunato da poter godere di ammortizzatori deve quindi avere la possibilità di accedere ad un salario sociale.
Nell’Italia di oggi il carovita non è una trovata pubblicitaria ma una concreta realtà.
In un solo fine settimana Rifondazione comunista è riuscita a vendere 10mila chili di pane ad un euro. A maggior ragione il governo – che ha qualche potere in più di noi – potrebbe intervenire sul carovita: occorre redistribuire il reddito. In secondo luogo non possiamo pensare di uscire da questa crisi regalando soldi alle imprese e alle banche. Occorre una rivoluzione ambientale e sociale dell’economia.
Stai parlando di un intervento dello Stato nell’economia?
Certo. Occorre tassare le rendite e porre un tetto agli stipendi. Occorre ripubblicizzare il credito, nazionalizzare le banche al fine di rendere possibile l’investimento per la riconversione della nostra economia in senso ambientale, per potenziare la ricerca, i servizi, per rendere effettivo il diritto allo studio per tutte e tutti. Al livello europeo occorre superare Maastricht, perché il ruolo della Banca centrale europea non può essere unicamente quello di sorvegliare la stabilità della moneta.
Stiamo parlando di una vera e propria rivoluzione politica. Basteranno le variegate forze della sinistra italiana? Da più parti si parla di un partito che le rappresenti tutte…
L’idea di fare un nuovo partitino che si aggiungerebbe agli altri, non mi sembra andare nella direzione giusta. Casomai potrebbe peggiorare ancora lo stato delle cose. Io penso che si possa lavorare ad un coordinamento delle opposizioni di sinistra, ad organismi unitari che provino a costruire un movimento politico di massa che faccia le due cose di cui abbiamo appena parlato: la difesa del reddito e una proposta di uscita da sinistra dalla crisi. La “politicità” sta dentro la costruzione del movimento di massa. Mi spiego: se il governo Berlusconi ha frenato sulla sua riforma dell’università, lo ha fatto a causa della forza del movimento di protesta. Non perché è stato incalzato dall’opposizione parlamentare. Dalla crisi non se ne esce con un di più di moderazione o consociativismo. In altre parole, la crisi non si supera con un dialogo tra i poli. Perché è entrato in crisi un modello di sviluppo e noi dobbiamo sviluppare un movimento che ne proponga un altro. Il consociativismo servirebbe solo a mettere qualche toppa su una camera d’aria ormai da buttare.
Un’ultima domanda: perché gli studenti si definiscono né di destra né di sinistra ma solo portatori di liberi pensieri. Non è che la politica ha fallito?
Le rivendicazioni degli studenti sono di sinistra, esprimono una cultura di sinistra. Infatti non si pongono solo l’obiettivo di bloccare Berlusconi, ma vogliono riformare l’università. Contemporaneamente danno voce a un senso di estraneità alla politica per quello che è stata negli ultimi anni, chiunque governasse. La loro è anche una critica al bipolarismo, all’alternanza che non serve a cambiare lo stato delle cose.
Non abbiamo parlato del referendum…
Non sostituisce il movimento, ma è una proposta utile. Decideremo nel comitato politico nazionale convocato per il 13 e 14 dicembre.
Nota: da Liberazione del 5/11/2008