Il nazismo senza baffetti: democrazia e capitalismo in cerca di nuovi partners
di Franco Berardi Bifo
tratto da da Opera Viva
Nei decenni culminanti della modernità considerammo il Nazismo un fenomeno estinto, passato, cancellato dalla storia. Per tranquillità lo definimmo Male Assoluto, e non se ne parla più. Identificando il nazismo con Auschwitz abbiamo finito per accettare Gaza, pensando: quello che accade è terribile, ma non è mica Auschwitz. Stiamo tranquilli. Il nazismo è diventato una sceneggiatura fosca che assolve preventivamente la violenza coloratissima della democrazia capitalista. Ma ora poco alla volta cominciamo a capire che il capitalismo democratico perde energia e futuro, forse perché alla lunga la democrazia non può convivere con il capitalismo.
La forma storica del nazional-socialismo hitleriano non si ripresenterà, ovviamente. Ma già nel 1946 Karl Jaspers consigliava di distinguere tra la manifestazione storica del nazismo e il suo significato essenziale. Per Gunther Anders il nazismo ha solo costituito la prima, brutale, manifestazione di una tendenza profonda della modernità tecnologica: «La tecnica che il Terzo Reich ha avviato su vasta scala non ha ancora raggiunto i confini del mondo, non è ancora “tecno-totalitaria”. Non si è ancora fatto sera. Questo, naturalmente non ci deve consolare e soprattutto non ci deve far considerare il regno (“Reich”) che ci sta dietro come qualcosa di unico e di erratico, come qualcosa di atipico per la nostra epoca o per il nostro mondo occidentale, perché l’operare tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacuna, con conseguente irresponsabilità individuale, ha preso le mosse da lì».
E aggiunge: «l’orrore del regno che viene supererà di gran lunga quello di ieri che, al confronto, apparirà soltanto come un teatro sperimentale di provincia, una prova generale del totalitarismo agghindato da stupida ideologia» (G. Anders, Noi figli di Eichmann, p. 66). Cercando di definire il nazismo sono giunto a individuarne tre caratteri essenziali, che a mio parere si sono ripresentati separatamente in momenti diversi della storia planetaria negli ultimi decenni.
Se questi caratteri un giorno si ripresenteranno insieme (dicevo a me stesso scrutando l’orizzonte) allora dovremo dire che il Nazismo ha vinto la sua battaglia secolare contro il Comunismo Bolscevico e contro la Democrazia liberista. Questo non accadrà, mi dicevo. Negli ultimi anni però si rafforza in me l’impressione che lo scenario mondiale stia realizzando quell’infausta eventualità: i tre caratteri che nella mia (discutibilissima) definizione individuano il nazismo, si stanno ripresentando insieme. Ma quali sono questi tre caratteri?
Il primo è quello di cui parla Anders: il primato del funzionale, il primato della perfezione tecnica rispetto alle forme irregolari della vita. Non c’è dubbio che questo primato è oggi riproposto dalla governance tecno-linguistica, modalità di dominio post-politico del capitalismo finanziario, ma di per sé questo non basta per definire il capitalismo finanziario come nazismo.
Il secondo carattere è la trasformazione della frustrazione operaia in aggressività nazionale in fasi di impoverimento e di umiliazione del fronte del lavoro. E’ quello che accadde negli anni Venti in Germania, quando Hitler interpretò la sofferenza dei lavoratori come umiliazione nazionale. Ma è anche quello che oggi accade in paesi come la Polonia il Regno Unito, l’Ungheria, e si prepara ad accadere in Francia. Neppure la reazione anti-globalista che si sta scatenando nel mondo e particolarmente in Europa , basta a mio parere per definire pienamente come nazismo la condizione presente.
Il terzo carattere è quello che riusciamo a cogliere soltanto se ci poniamo in una prospettiva di tipo evolutivo, meta-storico. Nel suo Essai sur l’inegualité des races humaines (1853), il conte Alfred de Gobineau non si limita ad affermare la superiorità della razza ariana, ma intravvede all’orizzonte il pericolo, anzi la tendenza fortissima verso la contaminazione e la degradazione di questa razza superiore. Al di là della rozzezza della sua analisi, de Gobineau coglie un filone profondo (profondissimo) dell’inconscio planetario tardo-moderno, un filone che a lungo abbiamo intravisto senza volerne riconoscere la potenza: il sentimento del declino della cultura bianca occidentale.
Il fatto che il concetto di razza sia un non-concetto, il fatto che scientificamente questa parola non corrisponda a niente non significa che l’identificazione fantasmatica dell’(autodefinitasi) razza bianca abbia giocato un ruolo decisivo nella storia del colonialismo moderno, del nazismo novecentesco, e oggi giochi un ruolo decisivo (la cui potenza non possiamo ancora pienamente apprezzare) nella catastrofe finale del capitalismo.
L’ascesa di Donald Trump sulla scena politica nordamericana (a prescindere dal fatto che vinca o perda) segnala proprio questo: impoverita dalla globalizzazione del mercato del lavoro, rimbambita dalla birra e dagli psicofarmaci, inviperita per la sconfitta strategica provocata dal presidente più ignorante della storia e dal suo consigliere malefico Dick Cheney, la «razza bianca» rivendica il proprio primato. Make America Great Again significa solo: Make white race superior again. Lo spirito del Ku Klux Klan si è ingigantito negli anni in cui un presidente nero (coltissimo e bellissimo a differenza degli zucconi obesi della razza bianca) ha occupato obbrobriosamente la Casa Bianca.
Il declino demografico è iscritto nell’evoluzione psico-sessuale dell’occidente. Il declino estetico è iscritto nei cibi ipercalorici e nelle droghe con cui la razza bianca placa la sua ansia. Inoltre la razza pura può essere contaminata, infiltrata, distrutta geneticamente dall’invasione di alieni.
Il discorso sulla fertilità è passato senza troppe critiche negli anni passati. Nella laica Francia, dove il laicismo diviene teocratico perché pretende di essere portatore di una verità superiore (e i nouveaux philosophes invecchiati male hanno le loro colpe in questa dittatura del pensiero libero, vero Finkielkraut?), nella laica Francia dicevo, si mena vanto di aver restituito vigore alla fertilità delle donne francesi con opportune politiche di finanziamento della messa al mondo.
Nella cattolica Polonia ha vinto recentemente le elezioni un partito nazional-integralista guidato da un gemello bigotto che va orgoglioso perché non ha mai messo piede fuori dall’amata patria (con l’eccezione di un viaggio in Vaticano quando non c’era un papa comunista). Come ha vinto le elezioni Kazinski? Le ha vinte con un programma socialista, poche storie. Ha promesso di riportare l’età della pensione da 67 a 60 anni, ha promesso aumenti salariali (il salario medio è intorno ai 500 euro), ha promesso di ri-finanziare servizi sanitari che il governo neoliberale democratico aveva impoverito per far bella figura con la signora Merkel.
Cosa ha realizzato il governo Kazinski del suo programma socialista? Niente da fare per gli aumenti salariali, né per le pensioni a 60 anni, nemmeno soldi per rifinanziare il sistema sanitario. Sapete quale misura socialista ha implementato il governo Kazinski? 500 szloti in più per ogni figlio che una coppia mette al mondo.
Adesso si parla di fertilità anche in Italia: il Ministero della Sanità invita le donne italiane a darsi una mossa. A sinistra la risposta contro i proclami ideologici del partito della famiglia consiste nel dire che se ci fossero maggiori servizi per le donne allora sì che ricominceremmo a moltiplicarci. Ma da dove deriva questa fissazione secondo cui fare figli sarebbe meglio che non farli? La fissazione sulla fertilità del popolo non si spiega se non si considera il riemergere psicotico del razzismo bianco.
La riduzione della popolazione futura provocherà un problema di tipo fiscale? Basterebbe accogliere un maggior numero di stranieri. Già ora coprono una parte decisiva delle entrate del sistema previdenziale. Basterebbe stimolare le adozioni, facilitare le procedure, dare cittadinanza europea a quelle centinaia di migliaia di bambini che vagano tra un campo di concentramento turco e uno greco senza più famiglia. No, rispondono Kazinski Lorenzin e Manuel Valls, perché così la razza bianca si estingue. Sai che guaio. Si tratta di idiozie, è del tutto evidente. Ma questa idiozia che si chiama identità sta mobilitando un numero crescente di persone che il capitale finanziario ha impoverito e continua imperterrito a impoverire.
Hitler disse ai lavoratori tedeschi che non erano lavoratori sconfitti ma vittoriosi guerrieri tedeschi. La stessa cosa hanno detto Nigel Farage ai lavoratori britannici e il gemello Kazinski ai lavoratori polacchi. E soprattutto la stessa cosa la sta dicendo Donald Trump ai lavoratori americani, che dovranno scegliere tra votare il Ku Klux Klan o una signora che dipende politicamente e culturalmente dalla Goldman Sachs.
La prima cosa da fare perché la razza bianca possa prosperare, naturalmente, è convincere le donne a far figli. La ragione suggerirebbe di riflettere un momento: la razza bianca non esiste, non può né estinguersi né prosperare. Esistono culture in perenne divenire, ma la loro evoluzione progressiva e pacifica non dipende dalle ovaie né dallo sperma. Dipende dalle scuole, dai libri, dall’amicizia, dalla condivisione delle risorse, e dalla pace.
Il signor Valls, dopo aver letto troppo Finkielkraut, manda la polizia a togliere i vestiti alle donne islamiche, costrette a subire l’imposizione macho-fanatica. Così i mariti le chiuderanno in casa e andranno da soli a farsi il bagno in mutande. Bravo Valls. Non sarebbe più sensato, più coraggioso e lungimirante dare la cittadinanza europea alle donne che chiedono rifugio contro l’imposizione violenta dei maschi islamici?