Sei un giovane catanese dei call center?
Benvenuto nella generazione low cost

Laura Galesi
Catania
E’ una generazione low cost quella dei lavoratori dei call center catanesi, come emerge dall’indagine del Nidil Cgil della città siciliana. Protagonisti dell’indagine 276 lavoratori a progetto di età compresa tra i 22 e i 49 anni operatori dei 14 call center della provincia etnea, il 27% dei quali ha fra i 22 e i 25 anni. Si tratta principalmente di studenti universitari alla ricerca di forme di integrazione al reddito garantito dalla famiglia di provenienza. Per i lavoratori di età superiore ai 37 anni (19%) il lavoro nel call center è frutto dell’espulsione dai processi produttivi caratterizzati da stabilità contrattuale, e si situa dentro la spirale paralizzante della necessità di produrre reddito “per mantenere la famiglia”. La condizione di esasperazione che investe i call center diventa ancora più grave se si riflette sulle problematiche di genere. La percentuale di donne è del 68%, lavorano prevalentemente in outbound ed esprimono meglio il concetto di “precarietà debole”, caratterizzata da meno tutele e svantaggio competitivo nell’accesso e nella permanenza in contesti aziendali più stabili. «Vorrei sposarmi, comprare casa – dice Daniela – ma non posso perché sono precaria. Ci sfruttano per due anni con la promessa della stabilizzazione e poi fingono finte chiusure per spostarsi cento metri più avanti e assumere nuovi giovani con contratti a progetto. E’ disumano».
La generazione low cost, tra le altre cose, si caratterizza per la crescente percentuale di single: 6 intervistati su 10, dichiarano di essere soli o legati a partner informali con cui non condividono gli oneri della convivenza sono obbligati a vivere nella casa dei genitori e solo in pochi casi da soli. Il 24% degli intervistati- soprattutto nella fascia di età 29-37 anni- è sposato o convive, mentre il 12% ha alle spalle esperienze sfumate di matrimonio e il 60% è single.
Ma chi trae profitto dalla precarietà, del gran bazar dello sfruttamento? L’indagine dimostra che a guadagnarci è la committenza, ossia gestori di telefonia fissa e mobile, compagnie assicurative, banche, enti pubblici, istituti di ricerca, reti televisive. Tra questi, pochi si pongono il problema dei controlli sull’operato delle aziende cui affidano le commesse con l’effetto che le condizioni contrattuali generano lavoratori stabilmente precari.Infatti, l’85% dei lavoratori dichiara di subire pretese di una presenza fissa sul luogo di lavoro. In sostanza tutto è definito rigidamente tranne il compenso che nel 78% dei casi è su provvigione quando solo il 9% oltre a questa formula ha una paga fissa. Il 77% dei lavoratori non è mai stato dipendente.
C’è poi il fronte salari, dove la famiglia funge sempre più da ammortizzatore sociale, coprendo tra il 30 e il 40% del fabbisogno economico mensile di un lavoratore. Il 73% del campione dichiara di dipendere in larga misura dalla propria famiglia di provenienza, mentre il 19% fa affidamento sul contributo del proprio partner. Soltanto il 5%, soprattutto tra i pluricommittenti, ce la fa da solo. Per il resto la media salariale è di 234 euro netti al mese, ma c’è chi ha guadagnato nell’ultimo mese di lavoro meno di 150 euro. Numeri che non possono certo garantire la possibilità di una vita normale. Ora i lavoratori minacciano battaglia per la stabilizzazione e una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro, un vento di cambiamento che per una volta potrebbe partire proprio da Catania.

Liberazione del 09/08/2008