Eleonora Artesio, assessore alla Sanità della Regione Piemonte

Eleonora Artesio, assessora alla Sanità Regione Piemonte su Liberazione del 17 gennaio 2009
L’appello “Per l’equità e per l’universalità del servizio sanitario” diffuso in facebook ha raccolto circa 1.500 adesioni. Perché in tanti hanno riformulato pubblicamente il principio del diritto alla salute e si mobilitano per rilanciare il sistema di protezione sociale? Forse perché ad ogni legge finanziaria si rinnova l’ansia governativa di contenere le risorse dedicate al Fondo sanitario nazionale in base all’idea che il servizio sanitario, per come lo conosciamo ad accesso universale e a bassa partecipazione diretta degli utenti (tickets), non sarebbe più compatibile con le finanze del paese. Ma i dati raccontano un’altra storia: i Paesi con servizi sanitari pubblici registrano tassi di crescita inferiori rispetto ai Paesi a finanziamento privato. Tra il 1990 e il 2004 la spesa sanitaria in Italia è aumentata dal 7,7 all’8,7 del Pil; nei Paesi Ue dal 7,3 al 9,1; negli Usa da 11,9 a 15,2.
Pare, quindi, che il Servizio sanitario nazionale soffra di un problema di sostenibilità politica prima che finanziaria. Come si risolverebbe l’insostenibilità politica? La risposta si intravede nei dibattiti per le prossime consultazioni regionali, ove il tema sanità (dei suoi costi e della titolarità degli assessorati) è dominante e, in Piemonte, rappresenta una condizione dell’accordo tra il centrosinistra e l’Udc. Lo slogan della nuova stagione sarà: “maggiore integrazione tra pubblico e privato per consentire ai cittadini la libertà di scelta”, più semplicemente “modello Lombardia”. In un paese “normale” apparirebbe paradossale che – essendo all’attenzione delle magistrature l’infiltrazione della corruzione nelle Pubbliche amministrazioni in virtù della disinvoltura dei privati, a danno non solo delle tasche ma della salute delle persone – la retorica pubblico sprecone/privato efficiente possa permeare tanto la politica. E’ doveroso scavare negli slogan. L’imprenditoria sanitaria non è un’imprenditoria come un’altra: tratta un bene fondamentale e ha un solo cliente, le Regioni.
E’ evidente che chi ha l’interesse a mantenere alte le entrate non potrà che alimentare bisogni presunti su un terreno fertile, cioè sulla paura delle malattie e della morte. Quando la salute diventa merce è indifferente chi la produce e può accadere che si deleghi la gestione di interi segmenti assistenziali al privato con una conseguenza: il pubblico, illudendosi di mantenere il governo e la regia del sistema, si spoglia della cultura e dell’esperienza del fare, diventa incapace di incontrare le plurali condizioni di vita e, alla fine, subisce le logiche di coloro cui si è affidato. I sostenitori del privato denunciano il volume, a loro dire eccessivo, del lavoro dipendente nel servizio sanitario, tentano di razionarlo con i blocchi delle assunzioni, censurano le Regioni che procedono alle stabilizzazioni del personale, aspirano al mercato come regolatore del sistema. In questo scenario i cittadini, le loro organizzazioni sociali, le loro rappresentanze sindacali, i partiti politici che ruolo giocano? Anche nell’ambito del diritto alla salute l’apatia politica e il lasciar correre sulle questioni di principio hanno prodotto l’assuefazione, ma anche lo smarrimento e la volgarizzazione rispetto al principio costituzionale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività… La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il diritto inalienabile della persona si è trasformato nel diritto a rivendicare la esigibilità delle cure in nome del prelievo fiscale con il quale sostengono il servizio sanitario; la soddisfazione dei bisogni di salute è diventata equivalente al consumo di farmaci e di prestazioni; si confonde l’obbligo etico e sociale di curare con l’obbligo di guarire riducendo così a un costo le condizioni umane inguaribili, ma doverosamente curabili, come le malattie croniche. Allora occorre un moto di passione pubblica per riaffermare che la vera libertà è la libertà dal bisogno non la libertà di possedere; che i beni comuni devono essere assicurati a tutti; che la difficile conciliazione tra diritto individuale e interesse collettivo può essere risolta solo dalla responsabilità pubblica, non dalla competizione di mercato.