Il governo presenta una finanziaria finta, che attende le risorse dallo «scudo fiscale» allargato a dismisura. Nemmeno una parola sul dramma che sta oggi vivendo il mondo del lavoro, con centinaia di migliaia di posti persi
Mentre presìdi, accampamenti e cortei attraversano le strade del paese, soltanto l’Istat riesce per ora a restituire un quadro unitario del fenomeno quantificando le perdite occupazionali causate dalla crisi. Ben poche iniziative generali, invece, sia sul fronte sindacale che su quello politico. Fanno eccezione solo lo sciopero dei metalmeccanici proclamato dalla Fiom-Cgil per il 9 ottobre, la manifestazione nazionale – autoconvocata – dei precari della scuola e lo sciopero generale indetto per il 23 dal «patto di base» (RdB-Cub, Cobas, Sdl).Eppure si tratta di cifre ormai paurose, nonostante le cautele e i sottili distinguo propri di un istituto statistico. I dati si riferiscono al secondo trimestre del 2009, ed escono in abbondante ritardo rispetto alle rilevazioni fatte in altri paesi e riassunte comunitariamente da Eurostat. Ma fotografano una situazione semplicemente opposta a quella raccontata dai vari ministri berlusconiani.
Andiamo con ordine. Pur essendo diminuite le «forze di lavoro» (le persone genericamente considerate in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni) grazie al saldo negativo tra neopensionati e adolescenti «impiegabili», gli «occupati» in un anno sono diminuiti di 378.000 unità. Pari all’1,6% in meno, il dato peggiore dal ’94. Sembrano già tanti, ma le statistiche possono ingannare. Tra gli occupati, infatti, vengono contati anche coloro che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento «captata» dalla rilevazione; ma anche quanti erano «assenti» per ferie, malattia o cassa integrazione (purché abbiano ricevuto almeno il 50% della retribuzione normale). Un insieme che pesa 341.000 persone dallo status salariale quanto mai variabile e incerto (la malattia, ormai, è diventata un lusso da evitare): c’è infatti una bella differenza tra il lavorare (ed esser pagati per) 40 ore o il farlo occasionalmente. Anche i più «garantiti» di questo lotto (i cassintegrati) sono comunque «a scadenza», visto che ogni ammortizzatore sociale non può avere il dono dell’eternità.
Un altro dato rende ancora più grave il bilancio potenziale, pur essendo teoricamente un elemento positivo: le donne migranti occupate sono aumentate, ma si tratta chiaramente di un effetto delle regolarizzazioni di badanti e colf, visto che invece anche gli «stranieri» vedono in generale aumenta il proprio tasso di disoccupazione (11%, mentre era all’8,8 un annofa).
Ma non ci si può davvero fermare ai dati nazionali. «Disaggregare» è indispensabile per avere una fotografia più articolata e viva della situazione. A pagare di più è il Mezzogiorno. Non è una novità, ma l’accelerazione stavolta è fortissima. In pratica, nel Sud sono spariti 271.000 posti di lavoro, il 75% del totale, il 4,1% di tutto lo scarso patrimonio a disposizione della parte più disastrata del paese. E questo nonostante la caduta delle «forze di lavoro» sia stata addirittura superiore in cifra assoluta a quella nazionale (298.000 unità). Peggio ancora: soltanto il 10% di quelli che hanno perso il lavoro si considera disoccupato.
Dov’è finita tutta questa gente? Secondo Vera Lamonica, segretario confederale della Cgil, dipende solo in parte «dall’emigrazione al Nord, che in realtà non si è mai fermata. Negli ultimi 10 anni se ne sono andate 700.000 persone». In parte questa «scomparsa» dalle statistiche dipende dal rifugiarsi nel «lavoro nero, statisticamente non misurabile); ma per le donne, il cui tasso di occupazione già basso va calando continuamente, si sommano vari altri fattori: meno disponibilità all’emigrazione, maggior carico delle cure familiari, minore professionalità». In più, il fatto che chi esce dal novero degli occupati esca anche da quello delle «forze di lavoro», sta ad indicare «un peso più alto al Sud dell’effetto scoraggiamento; il contesto generale è qui più chiuso, non dà speranze a chi perde il lavoro».
Al Nord e al Centro la «tenuta» è stata fin qui garantita dalla cassa integrazione (e non sono stati ancora calcolati gli effetti dei tagli alla scuola pubblica, che hanno messo per strada decine di migliaia di precari). Ma diventa sempre più visibile che la crisi sta devastando in primo luogo i «distretti produttivi», quelli che fin qui erano stati considerati il volano della (scarsa) crescita italiana e della tenuta dell’occupazione. Quindi anche della tenuta sociale.
Non c’è perciò da minimizzare. La caduta occupazionale contagia tutti i comparti produttivi e tutte le figure sociali. Per il quinto trimestre consecutivo, ad esempio, diminuiscono gli «indipendenti», tra cui ci sono piccoli imprenditori ma anche tante « partite Iva monocommittenti», in realtà dipendenti mascherati. C’è meno lavoro in agricoltura e nelle costruzioni; perdite gravissime nell’industria in senso stretto (e si attende con timore novembre e le cig in scadenza). Persino il mitico «terziario» cede ormai di schianto.
Nel Mezzogiorno, a questo punto, la stessa «tenuta sociale» sembra ormai molto compromessa. «Negli ultimi anni – spiega ancora Lamonica – il Sud è vissuto su un equilibrio malsano tra mancanza strutturale di lavoro, migrazione e welfare familiare intergenerazionale (il nonno pensionato che mantiene il nipote all’università, per esempio). Ora perde struttura produttiva e occupazione, in assenza di politiche del governo che prendano se non altro atto di questa situazione». Nel Sud e in tutta Italia, ormai.
di Francesco Piccioni, il manifesto del 23/09/2009