Assassinato il 6 gennaio 1980 il presidente della Regione che tentò di “ripulire” la Dc

di Gemma Contin su Liberazione del 5/01/09
Era il 6 gennaio 1980, trent’anni fa esatti. Palermo si stava svegliando dalle lunghe festività di Natale-Capodanno-Befana: quindici giorni e notti di gozzoviglie, giocate di carte, giri di amici e parenti, regali ai bambini, messe comandate.
Quella mattina dedicata all’Epifania, la vecchietta che con scopa e sacco «tutte le feste si porta via», cadeva giusto di domenica: buona ragione per dormirsela qualche ora di più, dopo l’ultima notte di poker-settemezzo-mercanteinfiera, o, per i cattolici osservanti e praticanti, di andare alla Santa Messa del mattino e farsi assolvere così da tutti i peccati di gola-lussuria-goduria inevitabilmente commessi nel corso di festività prolungate.
Una domenica azzurra di sole e già carica di profumi primaverili, come spesso accade a Palermo e in Sicilia, dove ai primi di gennaio, nella Valle dei Templi di Agrigento, si celebra la festa del mandorlo in fiore.
La città quasi deserta si stava appena risvegliando e stiracchiando pigramente, in vista dell’ennesima abbuffata, quando, alle 12 e 30, il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella era uscito di casa senza scorta, in via Libertà, quasi all’incrocio con piazza Croci, nel “cuore bene” del capoluogo, e si era messo al volante della sua Fiat 132 privata, assieme alla moglie Irma Chiazzese e al figlio ventenne Bernardo, per recarsi alla Messa nella non lontana chiesa dei gesuiti, dove era solito osservare il precetto religioso.
Non ci arrivò mai.  Un killer, che nonostante le smentite di molti testimoni e collaboratori di giustizia sarà riconosciuto dalla vedova nel terrorista di destra Giusvà Fioravanti, lo fermò per sempre con una scarica di colpi di pistola mentre si era appena seduto al posto di guida.
Mattarella, che quando fu ucciso aveva 45 anni, è stato il primo e unico presidente di un’Istituzione ad essere ammazzato mentre era in carica. Era anche un importante esponente del partito della Democrazia Cristiana siciliana. Partito con una storia assai complicata per le relazioni pericolose che alcuni notabili locali e nazionali tenevano con la “cupola” mafiosa, o direttamente, come nel caso di Vito Ciancimino e Salvo Lima, o attraverso le contiguità intessute dai cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, o ancora con le connivenze e le complicità derivanti dagli “affari” intrecciati tra politici e classe imprenditoriale isolana: i Vassallo, i Cassina, i D’Agostino, e tutte le imprese, locali e nazionali, che nel corso degli Anni Settanta (e poi ancora e sempre negli Anni Ottanta e Novanta e Duemila) si erano andate assicurando gli appalti e il sacco di Palermo e della Sicilia: i servizi pubblici, dai trasporti all’illuminazione urbana alla manutenzione stradale; l’edilizia pubblica privata cooperativa e marittima; le grandi opere (già allora) come dighe inutili, viadotti fantasma, edifici incompiuti e autostrade pericolose; o gli “interventi” degli enti di sviluppo e delle banche regionali.
Lo stesso Piersanti – e suo fratello Sergio, che all’epoca era professore universitario e che dopo la morte del fratello abbraccerà la politica fino a diventare ministro della Pubblica Istruzione dal 1989 al ’90 e della Difesa dal ’90 al 2001 – erano in qualche modo succubi di quella storia.
Infatti il padre, il vecchio Bernardo Mattarella, parlamentare democristiano sin dalla Costituente e fino alla sua scomparsa, più volte sottosegretario e ministro, era stato un esponente di spicco della Dc di Castellammare del Golfo, perfettamente immerso e integrato in quel sistema di relazioni, tanto da essere considerato “uomo di fiducia” fino al punto di essere accusato da Danilo Dolci (che per questo si beccò una querela e fu condannato dal Tribunale di Roma per diffamazione) di essere anche “uomo d’onore”, nel senso di una vera e propria affiliazione mafiosa, peraltro mai provata.
Al contrario, una sentenza del 1967, confermata in secondo grado e in Cassazione, afferma che Mattarella (Bernardo padre) «ha espresso sempre in modo inequivoco la sua condanna del fenomeno mafioso» e «non è mai entrato in contatto con l’ambiente mafioso da lui invece apertamente e decisamente osteggiato nel corso di tutta la sua carriere politica».
In ogni caso – poiché per fortuna le colpe dei padri, se anche ve ne sono, non possono essere ascritte ai figli, i quali rispondono per sé e per le scelte che compiono e le azioni che intraprendono – Piersanti e Sergio Mattarella quella storia e quei sospetti e quelle relazioni erano riusciti a scrollarsele di dosso.
Piersanti anzi era considerato “l’uomo nuovo” della Democrazia cristiana, non solo siciliana, anche perché i suoi referenti a livello nazionale erano stati l’ex presidente Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Br nel 1978, e l’ex ministro degli Interni Virginio Rognoni. Uomini molto lontani, politicamente e moralmente, da esponenti dello stesso partito come Giulio Andreotti, Giovanni Gioia e Salvo Lima, dai quali li divideva anche l’appartenenza a correnti del tutto diverse ed estranee alle loro mene e agli oscuri sodalizi che essi intrattenevano.
Piersanti era in Sicilia l’artefice di una linea di cambiamento che propugnava il rinnovamento della politica (e dei politici) a livello regionale, che cercava l’apertura a sinistra in un dialogo fitto e con uno scambio intenso con il Partito comunista, e, soprattutto, che aveva pubblicamente sconfessato tutti i pasticci e i pateracchi e le forme di commistione meno che limpide nella gestione della cosa pubblica, nella conduzione degli appalti regionali, nella ricerca di interlocutori “al di sopra di ogni sospetto”.
Sta di fatto che aveva messo in movimento un terremoto politico di cui aveva piena consapevolezza e che, già verso al fine del 1979, lo preoccupava nei suoi effetti incontrollabili, tanto da fargli chiedere un incontro con il suo vecchio amico e referente Virginio Rognoni, all’epoca ministro dell’Interno, sia per i segnali di pericolo che gli stavano arrivando, sia per chiarirgli che cosa stava succedendo nelle file del partito in Sicilia.
Prima di organizzare quella visita lampo a Roma aveva avvertito la sua segretaria Maria Grazia Trizzino: «Se mi dovesse accadere qualcosa si ricordi di questo viaggio».
In mezzo alle tante cose raccontate da Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, suona come un monito ancora aperto quell’indicazione senza appello: «Signor giudice, mi creda, i terroristi non c’entrano niente, quello di Mattarella è un omicidio fatto da Cosa Nostra: andate a vedere a chi furono affidati gli appalti dopo la sua morte».
Tesi ripresa e confermata dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso quando, nel corso di una recente commemorazione, ha affermato che l’uccisione di Piersanti Mattarella «fu un omicidio determinato da moventi complessi, con una coincidenza di interessi esterni a Cosa Nostra ma maturati in un contesto economico politico e mafioso in cui quegli interessi erano finiti per coincidere con l’obiettivo di tenere in piedi quel sistema politico-mafioso».
Un sistema contro cui il presidente della Regione ucciso il 6 gennaio di trent’anni fa si era battuto, nel primo vero tentativo di avviare una «primavera siciliana», naufragata, come tutte le altre che seguiranno, nel mare di sangue di vent’anni di “mattanza” che è riuscita, al tempo stesso, ad azzerare tutto quello che di politicamente innovativo era venuto alla luce e a ricacciare la classe dirigente siciliana nella logica degli “affari” di sempre, nelle relazioni pericolose di sempre, nelle mene oscure di sempre.