Vittoria.
Finiscono le ultime case del paese e inizia una fitta distesa di serre. È la città dell’ortofrutta: tutt’intorno migliaia di piccole imprese agricole. Pochi dipendenti per azienda, qualcuno di questi immigrato. Non pochissimi a dire il vero: oltre il 5% della popolazione in provincia di Ragusa, e la cifra sembra destinata a crescere. Per lo più romeni, che si avvalgono della maggiore semplicità nel varcare le frontiere, e magrebini, radicati oramai da anni. Sono la grande, economica, manovalanza su cui questo mercato del lavoro meridionale grava il peso per mantenersi minimamente competitivo nel commercio. I più fortunati ottengono una ancora incompleta integrazione nella comunità cittadina, a costo di anni di fatica, con lavori equamente retribuiti, case modeste, figli integrati nelle scuole per la nuova generazione più multiculturale. Gli sfortunati, solitamente irregolari, invece, vivono condizioni di sfruttamento: malpagati per un lavoro che ti svuota di ogni energia – provate voi a stare nove ore in serra – con norme di sicurezza raramente rispettate e senza contributi ne assicurazioni di alcun genere. Gli ultimi, quelli dimenticati dalla sorte, sono uno dei punti di margine di una multiforme e iniqua società come quella moderna: sfruttati nel salario, vivono in fatiscenti abitazioni vicine ai luoghi di lavoro, distanti dal centro – abitato. Nei casi più tristi queste catapecchie diventano ritrovi caldi per padroni sessualmente vogliosi: vittoriesi di mezza età appesantiti che costringono la notte la manodopera femminile a consumare rapporti per raggruzzolare qualche briciola in più ai loro miseri stipendi. Sono realtà ai margini dell’esistenza, costrette a conquistare dignità attimo per attimo, difendendosi faticosamente con denti ed artigli con un mondo che della anti – socialità ha fatto la sua legge.
C.da Sugherotorto, meno di una decina di kilometri da Vittoria.
Venerdì alle nove e mezza della sera, due ragazzi romeni di vent’anni, che la vita ha obbligato a crescere in fretta, chiusi nella casa lontana dagli occhi di tutti, persino di Dio, sentono dei rumori, lì vicino la finestra. Sanno di essere dimenticati dal mondo intero, escono e scappano. Via, lontano, fra i pomodori e il buio. Vengono raggiunti, sono due, solo gli occhi si vedono alla luna, una voce che come quella del padrone non è, il tono è stentato, e le mani, piene, un fucile e una pistola. Uno è veloce, il fucile lo muove duro dal lato del legno, e lui va terra. Lo picchiano, lo legano. Lei, è bella, giovane donna che ieri era bambina. Adesso indifesa. Prendono il suo corpo tre volte, sulla terra. Anni luce dal bene. Finiscono, si alzano, come bestie selvatiche: la battuta di caccia li ha appena saziati, hanno banchettato su quel corpo, poi un colpo in aria, per intimidire ulteriormente e costringere al silenzio e il boato che scuote mestamente il silenzio della campagna. Vanno via, lontano, non si sa dove.
Non ci siamo ancora realmente accorti di quante facce di questa società siamo costretti a tenere nascoste, per perbenismo o bigottismo, velato razzismo misto a completa ignoranza di un mondo triste, che sta intorno e in mezzo a quel nostro disegno che è la città che vogliamo vedere. La realtà è ben più dura: ai margini della Vittoria che crediamo di vivere si consuma la macelleria sociale degli sfruttati, dei disagiati, dei dimenticati. A considerare con attenzioni queste condizioni anche chi è dotato di minor logica converrebbe che è proprio in quei margini che vengono consumate le pagine più nere e disumane della nostra comunità. Abbiamo bisogno di ulteriori tragici avvenimenti che segnalino la condizione di precarietà dell’esistenza di alcuni uomini e donne che vivono tra noi?
Lasciar scivolare nell’oblio con rapidità e indifferenza ciò che è successo è una colpa che nessuno può permettersi: abbiamo per anni ignorato la reale consistenza di una società multiculturale subito fuori il portone delle nostre case; abbiamo chiuso gli occhi di fronte a chi ha subito, e tuttora subisce, il dramma di una emigrazione difficoltosa, di uno sfruttamento lavorativo e sessuale, di una esistenza labile.
Nascosti alle carte impolverate dei Ministeri e degli uffici locali, ai controlli di funzionari del lavoro, sono fantasmi della modernità. Nel buio vivono la sottomissione a chi trae profitto dai loro corpi, meschinamente, incapaci di ribellarsi perché non tutelati.
Un giorno, lo speriamo, anche a Vittoria, anche nel meridione d’Italia, terminerà questa condizione medioevale, di padroni e servi, di feudi e vessazioni. Allora potremo dirci migliori, democratici, sociali. Sino ad allora però saremo colpevoli con i nostri silenzi e la nostra indifferenza di ogni sopruso, di ogni ferita che non si rimarginerà, di ogni vita abusata.
A. Gentile
martedì 1 novembre 2011