di Alberto Burgio e Claudio Grassi su esserecomunisti.it del 29/10/2009
Al termine di una estenuante maratona congressuale, il Partito democratico ha scelto il segretario che lo guiderà in questi tempi difficili. Da osservatori esterni ma non indifferenti, salutiamo l’elezione di Pierluigi Bersani prendendo atto che le sue prime dichiarazioni mandano definitivamente in archivio la prima stagione del Pd. Quella legata al nome di Walter Veltroni, all’“inciucio” con Berlusconi sulla legge elettorale che aprì il bombardamento sul governo Prodi e decretò la fine anticipata della scorsa legislatura, all’avventurismo dell’autosufficienza (il patetico yes, we can), all’inconsistenza dell’opposizione al governo della destra, sancito dal crollo dei consensi (–7%) alle ultime europee. Il nuovo segretario sembra riconoscere il cumulo di errori commessi dal primo leader del partito e non corretti dal secondo. Ha giocato tutta la corsa alla successione su un’esplicita presa di distanza dal mito dell’autosufficienza. Ha promesso di parlare «con tutti i partiti all’opposizione del centrodestra». Ha persino definito «una grande cavolata» l’aver contribuito, nel 2007, alla elezione di Veltroni. Bene. Ma ci sono almeno due modi diversi di impostare il tema delle alleanze, una volta chiarito che l’autosufficienza porta dritti alla sconfitta.
Si può ragionare in termini puramente aritmetici. Posto che da soli (o con la sola Italia dei Valori) non si vince, occorre sommare forze diverse. Dispiace, sarebbe preferibile non esservi costretti e potere far da soli, ma la politica è l’arte del possibile, non quella dei miracoli. È necessario prendere atto della situazione e fare di necessità virtù.
Questa impostazione è impeccabile, realistica e razionale. Sembra tuttavia alquanto riduttiva. I voti, il giudizio degli elettori e i loro orientamenti politici non sono solo vincoli, di cui tenere conto opportunisticamente, in una logica ragionieristica. Sono prima di tutto ingredienti della composizione politica del Paese. Che un politico di grandi ambizioni dovrebbe considerare in positivo, riconoscendovi un fattore costitutivo del «blocco storico» da rappresentare e, possibilmente, espandere. Dietro quei voti che si intendono riconquistare ci sono ragioni, interessi, bisogni e progetti. Ci sono culture politiche, idee e valori. Un leader che abbia chiara la necessità di ricostituire un insieme di forze capace di conquistare la maggioranza dei consensi deve sapervi scorgere anche una ricchezza e una potenzialità, non soltanto un problema.
In altre parole, il primo banco di prova che attende il nuovo segretario del Pd consiste nella riconsiderazione critica della teleologia (e della teologia) maggioritarista. Lo schema culturale del maggioritario è povero e tendenzialmente autoritario. Di fronte alla pluralità, reagisce semplificando e imponendo aut-aut. Di fronte alla differenza, replica – da posizioni di forza – programmando «riduzioni a uno». Il guaio non è soltanto che così si perdono pezzi ed elezioni (soprattutto se non si dispone di grandi ricchezze per corrompere e di grandi apparati mediatici per manipolare e convincere). È che, a forza di rifiutarsi autisticamente di ascoltare le critiche altrui e di dialogare con le altrui ragioni, ci si impoverisce. Uscire davvero dal miserrimo schema veltroniano non significa costruire alleanze a suon di mediazioni e compromessi, ma impegnarsi affinché tutte le posizioni politiche che articolano lo schieramento dell’opposizione politica e sociale alla destra possano esprimersi e concorrere a rovesciare l’attuale quadro politico.
Detto questo, si è tuttavia solo all’inizio. L’ideologia maggioritarista è un architrave della cosiddetta «seconda Repubblica». È stata un cardine delle riforme istituzionali degli anni Novanta che hanno modificato in profondità il sistema politico italiano nel segno della personalizzazione della lotta politica, introducendo elementi di «federalismo» e presidenzialismo e ponendo ai margini le assemblee elettive (non solo il Parlamento nazionale, ma anche i Consigli territoriali). Dopo quindici-vent’anni è tempo di bilanci, e il nuovo segretario del Pd dovrebbe avere la forza e l’onestà intellettuale di comprenderlo.
All’inizio, quella stagione di riforme promise mari e monti. Stando ai suoi fautori, la transizione al «nuovo» (al sistema bipolare-semipresidenziale) avrebbe dovuto coniugare democrazia e governabilità, implementando la sovranità degli elettori ed esaltando l’efficienza del sistema. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Gli elettori hanno ridottissimi margini di scelta, soprattutto per via delle soglie di sbarramento e della logica del «voto utile» (che lede il diritto alla rappresentanza, violando il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione). E il confronto politico è degenerato in una rissa senza fine che alimenta pulsioni anti-politiche, minaccia l’autonomia dei poteri costituzionali e degli organi di garanzia, mette a repentaglio l’unità stessa del Paese e lascia drammaticamente irrisolti veri problemi del Paese. Si chieda a mente serena, l’on. Bersani, se il Paese stia meglio o peggio che negli anni Ottanta. Si domandi se il tratto di strada percorso in questi vent’anni abbia aumentato o ridotto le risorse del Paese, il suo capitale umano, il suo tasso di giustizia sociale, le sue concrete chances di sviluppo. E si interroghi sul ruolo svolto dalle forze del centrosinistra in una stagione di riforme che avrebbe dovuto imprimere una spinta nel segno della modernità e della democrazia.
La questione non riguarda soltanto il terreno istituzionale. Sull’onda delle riforme che hanno trasformato il sistema politico, hanno avuto corso in questi quindici anni processi che hanno cambiato il sistema produttivo, il mercato del lavoro e l’intera geografia sociale italiana. Questi processi si chiamano: concertazione, privatizzazioni e liberalizzazioni, flessibilità e delocalizzazione, e, non da ultimo, «risanamento della finanza pubblica». Anche su questo terreno, vinta la corsa alla segreteria, il nuovo leader del Pd dovrebbe aprire una riflessione sobria e libera da pregiudizi. Tanto più che ha subito assicurato di considerare la difesa del lavoro un tema prioritario del proprio impegno, il che – se le parole hanno un senso – dovrebbe significare il ripudio di un’altra brillante trovata veltroniana: l’equidistanza tra padroni e operai, equiparati sotto la generica etichetta di «produttori».
A che punto siamo arrivati grazie a queste «riforme» modernizzatici, che avrebbero dovuto dare slancio al sistema produttivo e promuovere una maggiore giustizia sociale? Limitiamoci a pochi dati di fatto attestati dalle statistiche ufficiali.
L’Italia è al penultimo posto nella classifica europea delle retribuzioni del lavoro dipendente e in vetta alla classifica della disuguaglianza. Le privatizzazioni hanno prodotto una oligarchia intoccabile di super-ricchi e coinvolto beni e servizi di prima necessità, ledendo i diritti di cittadinanza. Le pensioni dei lavoratori a tempo indeterminato hanno perso in media il 30% del potere d’acquisto (per quelle dei precari mancano dati aggregati, ma la perdita è almeno doppia). Per oltre 4 milioni di persone (in particolare giovani, donne e migranti) la flessibilità si è tradotta in sotto-occupazione e lavoro nero, precarietà, dequalificazione e povertà. Ricevendo continui incentivi pubblici (da ultimo, con la scusa delle misure anti-crisi) e potendo fare profitti col taglio dei «costi del lavoro», le imprese non hanno investito in ricerca e innovazione. La rinuncia dello Stato a qualsiasi ruolo di direzione e programmazione dello sviluppo si è tradotta nell’assenza di politica industriale e questa, a sua volta, nel declino dell’apparato produttivo nazionale.
Negli ultimi quindici anni – prima dell’esplosione della crisi – il Pil è rimasto al palo. Il potere contrattuale del sindacato non è mai stato così basso (come mostra anche la drammatica caduta della sicurezza sul lavoro). La democrazia sindacale è una chimera, mentre è in corso lo smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Il cosiddetto «risanamento» si è tradotto in drastici tagli alla spesa sociale (mentre la spesa per le armi e le missioni «di pace» sui fronti di guerra non si tocca, anzi continua ad aumentare) e in una accresciuta pressione fiscale sul lavoro dipendente (in un Paese in cui capitale e lavoro autonomo sottraggono al fisco oltre 250 miliardi di euro l’anno). E forse tutto ciò ha qualcosa a che vedere col dilagare del razzismo e dell’intolleranza, con la reviviscenza dello squadrismo fascista e lo spostarsi a destra di vasti settori del mondo lavoro e della stessa classe operaia.
Non ci illudiamo che l’on. Bersani sottoscriverebbe anche le virgole di questa sintesi. Ma le sue linee di fondo, che si limitano a riportare semplici evidenze, dovrebbe condividerle, poiché solo riconoscendo l’insostenibile condizione del lavoro potrebbe spiegarsi come mai le forze del centrosinistra hanno via via dissipato un grande patrimonio di consensi e non siano mai state capaci di conservare la maggioranza dopo aver vinto, più o meno fortunosamente, le elezioni. Non si tratta di difendere convinzioni e partiti presi. Si tratta di capire che cosa è accaduto, in un non più breve lasso di tempo, in Italia e in Europa, dove le forze socialdemocratiche hanno praticato politiche neoliberiste rinunciando alla difesa del lavoro dipendente. Si tratta di riflettere criticamente su una linea politica che, ancora negli ultimi anni, ha privilegiato gli interessi dell’impresa e della finanza speculativa, finendo col riconsegnare il Paese, per la terza volta, a una destra reazionaria, decisa a sovvertire il quadro costituzionale e a blindare la subordinazione delle classi lavoratrici.
Saprà l’on. Bersani dar corso alla riflessione seria e spregiudicata che lo attende? Stiamo a vedere. Intanto, ci permettiamo di rivolgergli una proposta e un piccolo suggerimento.
Gli proponiamo in primo luogo di marcare l’assunzione dell’importante incarico al quale è stato chiamato promuovendo una grande mobilitazione per il lavoro e contro i licenziamenti, per il reddito di chi è colpito dalla crisi e contro il governo e la sua sciagurata politica economica. A questa iniziativa, che potrebbe culminare in una grande manifestazione di popolo e mostrare al Paese che esiste ancora un enorme potenziale di lotta per la difesa dei diritti del lavoro e della Costituzione, parteciperebbero con ogni probabilità tutte le forze politiche e sociali avverse alla destra, che oggi stentano a trovare denominatori comuni per mettere a valore la propria forza d’urto.
Poi, visto che la politica è fatta anche di simboli, ci permettiamo di suggerire al nuovo segretario del Pd un piccolo gesto che parlerebbe in modo chiaro non solo alle lavoratrici e ai lavoratori che egli dichiara di voler tutelare, ma anche all’insieme della cittadinanza, spaventata per la continua emorragia di diritti e di garanzie. Trovi cinque minuti per una telefonata di felicitazioni e chiami Dante De Angelis, il macchinista licenziato da Trenitalia per aver denunciato i gravi problemi di sicurezza che affliggono le ferrovie italiane da quando anch’esse sono gestite come un’azienda privata, tesa a far soldi piuttosto che a fornire un servizio pubblico. Gli telefoni per rallegrarsi con lui della sentenza che lo ha reintegrato sul posto di lavoro riconoscendo la fondatezza della sua denuncia e dando torto all’azienda. Mostri concretamente di avere capito davvero che una battaglia di opposizione alla destra passa in primo luogo per una precisa scelta di campo a favore del lavoro e dei diritti sociali.