Messina Bene Comune contro il Ponte sullo stretto

Infrastrutture materiali e immateriali per la ricostruzione del territorio

Camera del Lavoro di Messina – 16 Novembre 2011

Cari compagni e care compagne,

innanzitutto mi corre l’obbligo di ringraziare tutti voi, i compagni Sinopoli, Mazzeo e l’Ingegnere Sciacca per essere qui con noi e per il contributo che daranno questa discussione e, naturalmente, Nicola Nicolosi che ha aderito con entusiasmo a questa nostra iniziativa. Così come sento di dover ringraziare l’impegno di Pietro Milazzo, coordinatore regionale di Lavoro/Società e dei compagni dell’Area Siciliana.

Abbiamo voluto tenere qui la nostra discussione perché pensiamo che la Camera del lavoro debba diventare un luogo in cui il movimento dei lavoratori, sempre più spesso, incontra e discute con tutto quanto di critico e progressivo si muova nel territorio, aprendosi – nelle rispettive autonomie – ai movimenti e alle differenze che li compongono.

Crisi economica e modello di sviluppo basato sulla rendita

La nostra riflessione prende spunto dalla necessità di costruire una maggiore consapevolezza su un dato di fatto: non è possibile separare la crisi economica in cui versa il paese dal modello di sviluppo che si è perseguito in questi ultimi 30 anni.

Il Ponte sullo stretto – che è stato mostrato, pure nelle cartoline, come un simbolo di potenza tecnologica e finanziaria, diventa per noi l’emblema del fallimentare progetto di governo, quello neo-liberista di stampo sudamericano, alla Pinochet, che tiene insieme decisionismo colbertiano e neomercantilista,  businnes e un uso violento delle istituzioni.

Un filo nero lega gli strumenti normativi (dalla legge obiettivo al condono edilizio, dallo scudo fiscale al federalismo demaniale) e le scelte politiche tragiche che hanno segnato l’era berlusconiana (dal piano casa al post- terremoto dell’Aquila al sistema Bertolaso del commissariamento permanente): è l’attacco alla democrazia, l’emarginazione dei territori e dei loro poteri locali a favore di logiche emergenziali e discrezionali. Ma attenzione a non commettere l’errore di ridurre tutto all’anomalia berlusconiana.

In questo processo, che affonda le sue radici negli anni 80, agiscono diversi soggetti: gli imprenditori, i banchieri, la classe di governo.

Chi si confronta con il settore edile – che in questi anni è cresciuto con una media del 15% dentro un paese sostanzialmente fermo –  ha il privilegio di verificare i tanti effetti della ricollocazione del capitalismo italiano nei confronti della globalizzazione.

Incapaci di reggere la concorrenza con i paesi emergenti,  i gruppi industriali come Pirelli, Fiat, Benetton, Falck immettono nel nuovo strumento del Fondo Immobiliare i loro patrimoni, ottenendo un netto miglioramento dei loro bilanci e dissimulando le loro perdite nella competizione mondiale con una forte ristrutturazione degli asset patrimoniali (che comprendono qualsiasi valore in possesso dell’azienda, tangibile o intangibile, che possa, direttamente o indirettamente, essere posto a copertura delle passività).

A riprova di questa tendenza c’è un dato: nel 1999 i prestiti per l’acquisto di immobili superano per la prima volta quelli per l’acquisto di macchinari industriali per arrivare, nel 2005, a un rapporto di 3 a 1.

Gli effetti dell’impoverimento produttivo li abbiamo visti anche qui, nei giorni seguenti il disastro di Giampilieri: le imprese messinesi non avevano nemmeno i macchinari necessari ai lavori di messa in sicurezza del territorio.

Insomma, le banche ricevono questi patrimoni immobiliari, innalzano il valore della loro rendita per mezzo di società veicolo, promuovono la crescita delle domande di acquisto, spostano sul settore immobiliare l’offerta di credito e stimolano l’indebitamento delle famiglie per la casa, che nel 2004 ammontava a 160 miliardi di euro.

Ed è in questo combinato disposto tra rendita e finanza che l’innovazione del fondo immobiliare consente di chiudere il cerchio: l’aumento della domanda di alloggi da parte della famiglie fa ricadere i suoi effetti sulla generalità del mercato immobiliare, valorizzando anche gli ex patrimoni industriali dei gruppi industriali.

E’ il primato della rendita immobiliare, avulsa dalla realtà fisica, che stimola la produzione edilizia e aumenta la domanda.

I dati del CRESME sono impressionanti: tra il 1997 e il 2006 la produzione edilizia residenziale è aumentata del 40%, le compravendite annue sono raddoppiate e i valori immobiliari sono aumentati del 63%.

Insomma, utilizzando lo strumento dei Fondi (tra il 2000 e il 2010 il loro patrimonio è aumentato di 15 volte, sono i secondi a livello europeo), la rendita immobiliare si comporta a tutti gli effetti come uno strumento finanziario: tra di loro, tra rendita finanziaria e rendita immobiliare c’è una un’affinità elettiva, la comune natura di “capitale fittizio”, inteso come un diritto di proprietà su  un qualche reddito futuro.

Il declino del paese viene così nascosto sotto il mattone: questa città  vede sorgere centinaia di palazzine e contestualmente chiudere decine di aziende produttive, che fanno spazio ad altre costruzioni. Vedi l’esperienza dei Molini Gazzi o, recentemente della fabbrica Triscele. Per non parlare della prossima valorizzazione delle aree del mercato ittico e dell’area ex Silos granai.

Una colossale acquisizione privata delle rendite immobiliari, che comprendono sia gli edifici che le aree, cioè rendita fondiaria ed edilizia.

Grandi opere e modello Fininvest

A qualcuno potrà anche sembrare strano che si descriva questo territorio in questi termini, ma è evidente come sia il meccanismo della rendita a fissare sempre più “capitale” nell’immensa quantità di manufatti che coprono colline e torrenti della ridente città dello stretto.

Del resto, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario della appropriazione capitalistica: il dominio del possesso sulla produzione.

Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra economia e politica. E il primato della rendita porta con sé un potere che possiamo definire “costituente”.

A questa forma capitalistica si accompagna una formidabile verticalizzazione del Potere in tutti i campi, nello stato, nell’impresa e nella società.

Guardiamo la Protezione Civile dell’era Bertolaso: organizzata secondo una rigida militarizzazione (679 ordinanze in 8 anni, una ogni cinque giorni e le tendopoli dell’Aquila gestite come lager) e caratterizzata da una asfissiante personalizzazione. Evidentemente strumentale ad una più generale “politica delle emergenze”: i rifiuti di Napoli, ma anche l’antrace, l’aviaria e perfino il terremoto di Haiti.

Per questo non bisogna credere che sia solo la follia berlusconiana a tracciare, nella lavagna di Bruno Vespa, schemi di trafori, ponti, autostrade.

La Commissione Antimafia ha stimato che tra il 1988 e il 1998 l’Anas ha appaltato lavori per 877 miliardi: il 40%, è andato a 11 famiglie mafiose.

Ad oggi, nel solco scavato dalla Legge Obiettivo sono state programmate 348 opere, presentate come “grandi infrastrutture a beneficio del territorio” con un costo vicino ai 360 miliardi di euro.

Tra queste il Ponte sullo stretto, che di questo enorme progettificio ha beneficiato – attraverso le sue società – forse più di tutti, con 500 milioni spesi in studi, sondaggi e consulenze.

E adesso Impregilo (quella che ha costruito l’ospedale dell’Aquila)  pretende 400 milioni di euro di penale se il progetto del Ponte dovesse arrestarsi definitivamente.

Questa sorta di pretesa dell’assenza di rischio, che ha caratterizzato tutta l’articolazione delle megaopere, per quanto edulcorata da prestigiosi studi professionali, assomiglia molto a qualcosa di già visto nella formazione dell’impresa mafiosa, che “deve” ottenere risultati certi.

Il territorio, in questa ottica, diventa un canale redditizio sui cui investire capitali sporchi a cui si aggiungono tutte le opportunità offerte dalla spesa per le mega opere. Che cementifica colline,  blocchi sociali e perfino coscienze.

Per esempio: a Barcellona P.G. sono dovuti passare anni prima che la magistratura intervenisse sulla progettazione di un Mega Parco Commerciale della portata di 250 milioni di euro da parte di una società intestata ad ex sorvegliato speciale, con un capitale di 7.000 euro e su un terreno agricolo e che il Comune di Barcellona trasforma  in residenziale in tempi record.

Acquistati a 25 euro al Mq, i 16 ettari acquistati da tale Cattafi adesso valgono, secondo il principio della rendita, qualche milione di euro.

Forse è anche per questa capacità di colonizzazione, che nessun dipartimento universitario ha sentito la necessità di analizzare le linee di indirizzo di un Prg che, in questa città, prevede un incremento per altri 16 milioni di metri cubi di cemento e che riesce ad immaginare che i 240.000 abitanti raddoppino in qualche anno (mentre sappiamo che ogni anno 2.500 neo-emigranti se ne vanno per lo stato miserevole in cui versa).

E così si prevedono 52 alloggi nella zona di Faro Superiore, un centro commerciale a Papardo, 30 villette unifamiliari a Mortelle, 600 alloggi sulle colline del torrente trapani insieme ad altri 2 centri commerciali, un complesso residenziale di oltre 150 alloggi a San Licandro, 11 palazzine tra il Viale Margherita e il torrente Trapani.

E l’elenco potrebbe continuare. In città non esiste uno studio sul numero di abitazioni sfitte, ma si stima che siano parecchie migliaia. Che rendono ancora più odiosa una realtà che vede almeno 3000 persone abitare ancora nelle baracche.

La politica nazionale diventa “politica del territorio” su cui si distende la nuova accumulazione capitalistica e in cui la scienza – per mezzo di università compiacenti – le stesse che offrono a noi un Ponte invincibile, resistente ai venti e ai terremoti, e diventa parte integrante di questa simbiosi.

La crisi dell’Università si paga anche in termini di perdita di senso critico e di indebolimento di quasi tutti gli strumenti di controllo interni alla disciplina.

E’ innegabile che la diminuzione dei fondi per la ricerca abbia reso l’elaborazione culturale sempre più condizionata dalle commesse esterne e dalle dinamiche professionali.

Politica e speculazioni in franchising

E poi c’è la responsabilità delle classi di governo, che hanno svolto una funzione di coinvolgimento politico e ideologico a questo disastro, coordinandosi con imprenditori e banche: lo scudo fiscale ha consentito il rientro di capitale inconfessabili che hanno trovato una sponda anche loro nei fondi immobiliari e così è stato anche per il condono edilizio che ha fatto emergere sul mercato legale una fetta consistente di patrimonio abusivo (che ammonta a circa 4.400.000 abitazioni)

Le ricadute materiali di questi processi – ma anche passaggi importanti della loro composizione – hanno interessato questo territorio in forme tanto eclatanti quanto poco discusse.

Forse il Ponte sullo Stretto ha trasformato questa città in una sorta di “laboratorio” per assetti politici e modelli di governo di portata molto più generale, in cui la maggioranza delle classi dirigenti attinge dal territorio le risorse economiche necessarie al suo ciclo vitale.

Il Ponte dello stretto, dunque, come logo, come marchio di un progetto politico per ristabilire le condizioni necessarie ad una nuova accumulazione, cambiando la fonte di prelievo, prima agganciata al ciclo produttivo, e rafforzando il potere delle élite economiche.

Adesso la nuova accumulazione passa dall’ambiente fisico, dal suolo, dalla vita quotidiana delle persone.

I cittadini, dalla città del lavoro, quella fordista, si ritrovano ad abitare nella città, ben più terribile, della rendita. Quella in cui si moltiplicano gli intrecci incontrollati tra lecito ed illecito, la speculazione edilizia, la corruzione, l’evasione fiscale, una città capace solo di produrre periferie con all’interno “eccedente umano”.

Questa “seconda grande trasformazione” dell’assetto economico produce una crescente domanda di nuovi individui schiavizzabili, immigrati innanzitutto, ma anche tanti della nuova generazione iper-precaria.

Tra l’inizio e la fine di questo circuito di nuova valorizzazione c’è stato un trasferimento del debito delle imprese a carico delle famiglie, con enorme vantaggio del sistema creditizio che lo ha organizzato e gestito: non hanno gli strumenti per valutare gli investimenti immateriali (ragione per cui se un ricercatore chiede un prestito per realizzare una nuova tecnologia gli chiedono la casa in ipoteca) ma le banche conoscono a perfezione la dinamica della rendita pura.

Infatti, i prestiti concessi ai signori del cemento e ai palazzinari, nel loro bilancio non sono debiti ma “impieghi”, col segno +.

E il trucco sta proprio nella parola “impiego”: quelli destinati alla realizzazione di qualche progetto non corrispondono ad un prestito, non hanno un segno meno.

L’impiego figura come investimento e genera quindi una rendita (per quanto attesa, auspicata e futura, ma per niente certa).

E così aprono gigantesche linee di credito per progetti immobiliari anche quando le case non si vendono: già alla fine del 2008, l’Agenzia del territorio aveva censito uno stock di immobili a disposizione di 4,99 mln di unità (circa il 10% dei 50 milioni di unità di proprietà di persone fisiche) e la camera dei deputati ha certificato che, solo nel 2010, sono 120.000 gli appartamenti nuovi e invenduti (mentre più di 650.000 famiglie aspettano da anni l’assegnazione di una casa popolare).

Nel marzo del 2010 la Banca d’Italia ha quantificato gli impieghi degli istituti di credito a favore di imprese operanti nei settori edili delle opere pubbliche in oltre 131,6 miliardi di euro, di cui almeno 8 risultano in sofferenza perché dati con troppa leggerezza. Dentro questo meccanismo nascono le speculazioni edilizie che producono periferie degradate e quartieri dormitorio.

L’ente locale, quando non partecipa direttamente alla speculazione, è infatti, inevitabilmente subalterno.

La legge permette al comune di utilizzare il 75% dell’incasso dei cd “oneri di urbanizzazione” per la spesa corrente e non – come logica vorrebbe – per le normale opere necessarie a rendere vivibile le aree in cui si è costruito.  E si tratta di 3 miliardi di euro.

Per questo abbiamo voluto contrapporre, nel titolo di questo incontro, il concetto di “città come bene comune” al progetto di Ponte sullo stretto, perché dentro quest’ultimo vive una questione molto più complessa del semplice e improbabile manufatto.

E’ la distruzione del primato dell’interesse collettivo e pubblico nel governo del territorio: la mega opera come legittimazione e prolungamento dell’abusivismo edilizio ed urbanistico, della compromissione di tutte le condizioni della vivibilità, privilegiando nell’economia le componenti parassitarie e criminali: quelle del cemento depotenziato, delle cave, dei centri commerciali funzionali al riciclaggio del denaro sporco.

Davanti c’è un paese che fa pena e paura, ben rappresentato da una immagine insieme banale e terrificante: quella della frana. Una gigantesca frana, uno smottamento – economico, sociale e ambientale – in moto da anni.

Fatta di condoni edilizi, di sanatorie, di deroghe alle normative urbanistiche, tutte all’insegna del motto “padroni in casa nostra”.

Questo territorio ha pagato le conseguenze di questa ubriacatura liberista: la terribile esperienza della frana che ha investito la zona sud nell’ottobre del 2009 e provocato 37 morti e più di 1600 sfollati a cui vanno aggiunti i 1500 di San Fratello e di altri territori segnati da frane e smottamenti.

Di qualche giorno fa la notizia che la magistratura ha emesso decine di avvisi di garanzia ad altrettanti amministratori, tecnici e funzionari del comune di Messina e Scaletta, tra i quali il Sindaco Buzzanca a cui si contesta il fatto di non aver fatto nulla anche di fronte ad elementi precisi e segnali chiari.

Ad esempio il fatto che nel 2007 la polizia municipale aveva emesso oltre 1200 ordinanze di demolizione (mai effettuate) di altrettanti edifici abusivi e circa 200 erano localizzati a Giampilieri e che, sempre nello stesso anno, una frana devastante, ma senza vittime, aveva colpito le stesse zone.

Vale la pena ricordare che nel quindicennio che va dalla ripresa del mercato delle costruzioni (1995) ad oggi, un fiume di cemento e si è riversato sul paese,  che l’Istat ha certificato (2009) in oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento e che ha provocato la perdita di oltre 3.663.000 ettari di terreni agricoli.

Contestualmente venivano smantellate urbanistica e piani regolatori e dilagavano deroghe e “urbanistica contrattata”.

E il risultato sono gigantesche periferie senza struttura e senza relazioni: abbiamo il più basso livello di infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili ad abitante, con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di popolazione, un consumo di suolo senza uguali nei paesi ad economia forte. Un’immensa «non città», anonima e disordinata.

Una frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni economiche e scarsa qualità della vita  e che mina le stesse basi per una nuova fase di sviluppo. Per tentare di colmare la distanza dobbiamo essere in grado di rendere concrete due condizioni: bloccare per sempre le espansioni urbane, perché è un costo che non possiamo permetterci più e investire risorse pubbliche per migliorare le città.

Ce lo impone quanto accaduto a Genova, a Napoli, all’Isola d’Elba, alle Cinque Terre, a Messina. E a Sarno. E in tutti i luoghi di quell’elenco lunghissimo di frane ed alluvioni che sta indietro negli anni: dal 1980 più di 3.500 morti e oltre 50 miliardi di euro di danni.

Abbiamo dimostrato che molti si sono arricchiti sfruttando il territorio.

Che amministrazioni pubbliche e proprietari privati hanno considerato il territorio un bene da sfruttare a loro vantaggio, senza alcun rispetto per la natura e chi il territorio abita.

Lo stato del nostro paese è in condizioni penose; avrebbe bisogno di un grande restauro territoriale: secondo Legambiente la metà delle scuole italiane, circa 42.000 edifici, è a rischio così come il 41% degli ospedali (507 edifici). In Calabria, dove capita di vedere un’impresa edile ogni 200 abitanti (è il caso di Platì), il 78% delle scuole non ha agibilità. E al sud le scuole a rischio sono oltre il 62%.

Come detto i fondi, finanziaria dopo finanziaria, sono diventati ridicoli. Ma se anche ci fossero gli stanziamenti per i lavori necessari chi dovrebbe gestirli? Abbiamo visto come le tante emergenze si sono trasformate in grandi affari. Basterebbe l’Aquila.

Esiste, come ricorda sul Manifesto dell’8 novembre Piero Bevilacqua, una questione territoriale. Non la si vuole riconoscere. Così come non si è voluto riconoscere la crisi: 3671 comuni a rischio idrogeologico, il 45% del paese su cui abitano 25 milioni di persone.

Le timide ammissioni sul fatto che quanto sta accadendo è frutto del “ troppo costruito” – avanzate persino da chi ha introdotto nel nostro paese il condono edilizio a go-go – in realtà tendono a spostare sugli esiti edilizi (case, edifici, infrastrutture…) le colpe per nascondere come questi sciagurati individui di cemento e mattoni invece siano lì a dimostrare che averli potuti realizzare è stato possibile solo azzerando, nel tempo, ogni procedura democratica. Non basta ripristinare le regole dell’urbanistica.

Compito centrale per affrontare la questione territoriale è parlare di democrazia a partire dall’individuazione di un nuovo concetto di modernità: che trova nella la fragilità del territorio, nella ricostruzione di una città a misura d’uomo, nella ricerca e nella conoscenza le sue occasioni di sviluppo occupazionale. Iniziando proprio dalla riqualificazione di tutta la filiera delle costruzioni, attraverso lo sviluppo della bioarchitettura, dei manufatti ad emissione zero  innalzando il contenuto di intelligenza di quello che produciamo.

La Fillea CGIL lo dice da tempo: con gli investimenti per la messa in sicurezza del patrimonio abitativo (per gran parte, soprattutto in questa città, non idoneo a reggere un evento sismico)  e del territorio, le ricadute occupazionali darebbero sollievo a gran parte dei 300.000 operai che in questi ultimi due anni hanno perso il lavoro.

Pensare la ricostruzione del territorio è una questione di democrazia prima ancora che di urbanistica. Occorre rivalutare le singole scelte di settore (energia, agricoltura, edilizia, alimentazione…) all’interno di una sperimentazione anche conflittuale al fine di immaginare ciò che vogliamo.

Solo così si può affrontare la questione territoriale e mutare l’attuale, endemica e costante, emergenza in un percorso di trasformazione virtuosa dei luoghi feriti.

Potremo riuscire a mettere mano alle devastazioni provocate dal programmato (per questo sì,  inevitabile) disastro ambientale solo se riusciremo a riscrivere le modalità di gestire i luoghi, nominando gli attori che li “abiteranno”, producendo valore, recuperando saperi da far tornare costituenti, attraverso la riappropriazione democratica che rappresenta la progettualità del Comune.

A partire proprio dall’opporsi ad una ricostruzione del “dov’era e com’era” di quello che, spacciato come soluzione, si è dimostrato essere il problema.

Questa città, seppure povera di cultura democratica e di tessuti solidali, ha visto momenti di mobilitazione per la difesa di interessi collettivi: la battaglia sui Tir, la mobilitazione contro il Ponte sullo stretto, il movimento degli studenti, le iniziative dei migranti, i comitati per la messa in sicurezza del territorio.

E credo che la nostra organizzazione debba prestare più attenzione, ed essere più vicina a queste esperienze perché contribuiscono a disegnare, anche per questa città, un futuro possibile e diverso dalle miserie del presente.

Occorre uno sforzo in più per ricomporre il tessuto solidale di questo territorio, generalizzare le vertenze e chiamare i cittadini  messinesi ad una mobilitazione popolare e di massa.

A chi, dentro questa organizzazione, pensa di poter aggirare il confronto sul merito delle questioni agitando improbabili “problemi di opportunità” (o di “visibilità”) diciamo chiaramente non solo che l’iniziativa della nostra Area non si fermerà, ma che intendiamo aprire spazi di discussione e – dove occorre – di critica su tutto il terreno di azione proprio di un movimento sindacale.