di Tommaso Di Francesco, Il manifesto – 15 novembre 2009
Inaugurata a Pristina da Bill Clinton la sua statua di bronzo a ringraziamento della guerra «umanitaria» della Nato del 1999. All’ombra del potente premier Hashim Thaqi su cui crescono i dossier internazionali per crimini di guerra, un Kosovo solo albanese, povero e devastato dalla corruzione, va oggi al primo voto etnico-amministrativo. Il mese di novembre 2009 passerà alla storia del sud-est europeo balcanico. Dopo il crollo dell’89 che vide lo smantellamento dei simboli del «socialismo reale» a cominciare dalle statue imbalsamate dei leader del comunismo, a Pristina è stata eretta con cerimonia, bande e trionfo, la statua del nuovo «piccolo padre», o padre della patria: Bill Clinton.
L’ex presidente degli Stati uniti a inizio mese si è presentato a Pristina in un tripudio di folla, ben spesato dalle fondazioni albanesi d’America – una lobby che è riuscita ad eleggere un capo della Cia – ad inaugurare la sua statua. Alta 3,4 metri – come quelle di Stalin nella connazionale Albania -, pesa 900 chilogrammi, ed è stata sponsorizzata dall’Associazione kosovaro albanese «Amici degli Stati uniti», è opera dello scultore Izeir Mustafa. Abbracciato come un eroe, sorridente per le tv locali, ha inaugurato la sua immagine di bronzo sulla piazza che porta già il suo nome. Presenti il presidente Fatmir Sejdiu e il potente premier Hashim Thaqi, ex leader dell’Uck. Quel Thaqi di cui proprio Carla Del Ponte nel suo libro «La caccia» denuncia corresponsabilità in una vicenda truculenta: l’espianto d’organi nel nord dell’Albania a 150 prigionieri serbi perpetrata dalle milizie al diretto comando dell’attuale premier di Pristina. Una delegazione del Consiglio d’Europa che indaga su questo, guidata dal Rapporteur Dick Marty, è stata cacciata nell’agosto scorso dall’Albania. «I cittadini del Kosovo – ha detto Hashim Thaqi alla festosa cerimonia – sono grati per la decisione di intervenire militarmente per prevenire un genocidio senza precedenti». Un discorso elettorale, visto che oggi in Kosovo si vota per le amministrative. Votano solo gli albanesi, i serbi le boicottano e anche Belgrado consiglia di «non andare a votare. Ma alle prime elezioni politiche di quasi un anno ci fu la sorpresa dell’astensione, votò infatti solo il 43% dei kosovari albanesi aventi diritto.
«Ero qui 10 anni fa – ha dichiarato Clinton – per fermare le cose terribili che accadevano allora e sono qui dieci anni dopo per testimoniare di un futuro migliore di progresso per il Kosovo che è riuscito a creare istituzioni democratiche, una stampa libera e una forte società civile» inoltre è stato accettato dal Fondo monetario e si avvicina alla Nato e all’Unione europea».
Ne avesse indovinata una. Sia sulla reale situazione del Kosovo, sia sulla legittimità dell’intervento armato della Nato che dal 24 marzo 1999 devastò con una micidiale sequela di bombardamenti «umanitari» aerei tutta l’ex Jugoslavia, Serbia e Kosovo.
Perché la realtà del Kosovo è questa: più del 50% di disoccupazione, con il 73% dei giovani disoccupati e in fuga dal paese secondo il primo giornale di Pristina Koha Ditore; con una «corruzione dilagante e scarsa libertà di parola», mega-traffici mafiosi, denuncia il Rapporto dell’Ue del 12 ottobre scorso; con le poche minoranze non serbe in fuga secondo l’Ong Minority Rights Group; con 300.000 profughi serbi e altrettanti rom fuggiti nel terrore proprio a partire dall’ingresso delle truppe Nato nell’estate del 1999; con l’Osce che in un suo documento di questi giorni accusa che «Pristina non adempie all’obbligo di assistere i rifugiati non albanesi costretti a non rientrare nel paese»; con l’Unicef che rivela il tasso più alto in Europa di mortalità infantile e tra le donne «a causa delle carenze sanitarie»; con il 90% della popolazione che ritiene, secondo una sondaggio condotto dall’Undp-Onu, responsabile dello sfascio economico e sociale del paese il governo di Hashim Thaqi, né si fida dell’opposizione rappresentata da Ramush Haradinaj – già incriminato all’Aja per crimini e stragi commessi già nel 1998 contro civili serbi e rom.
Quanto a legittimità e risultati dell’intervento «salvifico» dell’Alleanza atlantica, sponsorizzato dallo «statuario» Bill Clinton e dagli allora leader democratici della Nato come Javier Solana, Massimo D’Alema, Tony Blair, ecc. ecc. Va ricordato che quella guerra del marzo 1999 fu illegale, venne fatta senza l’Onu e contro l’Onu. Mise in scacco l’autonomia dell’Europa e permise agli Stati uniti di riappropiarsi della Nato. Che ebbe, anche quella un voto bipartisan – Berlusconi in Italia votò a favore – legittimato solo da un castello di provocazioni e menzogne denunciate perfino dall’allora ministro degli esteri italiano Lamberto Dini. Che cancellò la possibilità che la controversia interna all’ex Jugoslavia potesse essere composta da una mediazione internazionale in corso quale era la missione dell’Osce. Azzerando i principi dell’articolo 11 della nostra Costituzione che «rifiuta la guerra come mezzo di composizione delle controversie internazionali».
La guerra fu motivata da ragioni umanitarie. «500mila morti» titolava il New York Times, «Sessantamila vittime» Liberation, «Genocidio» Le Monde. Ma quei giornali (non proprio gli ultimi) non hanno nemmeno titolato – arrivarono solo 15 righe della Reuters – quando il 6 settembre 2001 proprio la Corte suprema di Pristina, sotto egida Onu, sancì che i miliziani serbi nel 1998-1999 furono responsabili sì di violenze ai danni della popolazione albanese che, comunque, cominciarono dopo i raid aerei della Nato, ma non di genocidio. E il Tribunale dell’Aja con l’inchiesta sul campo non trovò prove del «massacro», rinvenne il seppellimento di duemila morti, ma caduti in combattimento. Non solo: la Corte di Pristina in quel dibattimento ha dichiarato di avere le prove che il drammatico esodo di 890mila persone – rimaste in attesa sul confine e tutte rientrate dopo 78 giorni di guerra – non fu provocato dai miliziani serbi, come ci venne detto, ma dal terrore di essere colpiti dalle bombe della Nato. Un terrore giustificato, viste le stragi efferate tra la popolazione civile, sia in Serbia che tra gli albanesi in Kosovo – Djakovo, Korisha, Pristina – con i cosiddetti effetti collaterali che un’indagine di Amnesty International ha dimostrato essere omicidi deliberati per terrorizzare i civili.
Alla fine la farsa di Rambouillet (il diktat con cui si pretendeva di mettere l’intera ex Jugoslavia sotto controllo della Nato) e il casus belli inventato della strage di Racak come ha dimostrato il documento dei medici legali impegnati dall’Onu, hanno fatto il resto per attivare la guerra a tutti costi.
Il fatto è che quella guerra di raid aerei un obiettivo l’aveva: il 17 febbraio del 2008 infatti è stata proclamata l’indipendenza unilaterale del Kosovo, sponsorizzata da Bush e riconosciuta subito da molti paesi atlantici – non da tutti, Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro Nord hanno detto no. E non è riconosciuta dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ora è caos istituzionale, c’è la nuova missione Eulex ad imporre l’indipendenza ai pochi serbi rimasti, resta la Kfor-Nato con meno ruolo. Ma l’Onu con Ban Ki-Moon che lo ha annunciato a fine ottobre, insiste a rimanere sulla base della Risoluzione 1244» con cui finì la guerra, entrò la Nato ma riconoscendo la sovranità di Belgrado sul Kosovo.
Venerdì al vertice governativo Italia e Serbia di Roma, il presidente serbo Boris Tadic ha ribadito: «La Serbia non farà mai un passo indietro nel rivendicare la propria integrità territoriale. Lotteremo con tutti i mezzi giuridici». Fiducioso che la massima Corte dell’Aja dica sì – la scadenza è ora, a dicembre – al ricorso serbo contro l’indipendenza unilaterale del Kosovo.